Anais Ginori (Roma, 1975). Giornalista, lavora a La Repubblica dal 1999

mercoledì 29 agosto 2012

Il paese dei numeri primi

PARIGI - Con la camicia all'antica, la giacca lunga e, sul bavero, una spilla a forma di ragno, Cédric Villani, sembra più un dandy che non un insigne matematico. Appare in tutta la sua eccentrica eleganza sulle copertine di molte riviste, ospite di programmi televisivi per presentare il suo “Théorème vivant”, diario semiserio ai vertici della comunità scientifica internazionale. “La matematica? Come un piacere sessuale” scherza Villani, 39 anni, diventato famoso dopo aver vinto nel 2010 la medaglia Fields, l'equivalente del Nobel, per i suoi lunghi studi sulla formula dell'entropia Boltzmann. Nella storia di questo premio inventato nel 1936, gli studiosi francesi hanno conquistato il venti per cento delle medaglie, al secondo posto dopo gli americani. Qualche giorno fa, un altro importante riconoscimento internazionale, il Prix Henri Poincaré, è stato assegnato per la prima volta a due donne, Sylvia Serfaty e Nalini Anantharaman, entrambi ricercatrici al Cnrs, il centro nazionale di ricerca. Negli ultimi mesi, ha calcolato con orgoglio sciovinista Le Monde, i francesi si sono accaparrati cinque dei dodici premi della società europea di matematica per i ricercatori di meno di 35 anni.
La Francia è il paese dei numeri primi. I libri ludici intorno ai misteri dell'algebra o alla geometria diventano bestseller. Nelle edicole si vendono diverse riviste di esercizi per tenersi in allenamento. E' il paese che ha inventato il campionato mondiale di logica e matematica che si è disputato qualche giorno fa nel palazzo parigino dell'Unesco. La matematica piace tanto che Fondazione Cartier ha persino allestito una mostra dedicata all'estetica che si cela dietro a formule, teoremi, equazioni. Lo scienziato pazzo e scorbutico? E' un cliché superato. Personaggi come Cédric Villani o Stella Baruk, autrice di manuali alternativi per insegnare ai bambini, sono delle “mathstar”, un po' come nell'architettura esistono le “archistar”.
Nonostante la concorrenza dei paesi emergenti e il saldo primato statunitense, a Parigi lavorano in pianta stabile oltre mille ricercatori di questa disciplina. “E' la più alta concentrazione in una sola città, neanche gli americani ci battono” racconta soddisfatto Jean-Yves Chemin, direttore della fondazione di scienze matematiche di Parigi che riunisce i migliori centri di ricerca e università della capitale. Il segreto di questo record è presto svelato. Per scoprirlo basta andare nel quinto arrondissement, in rue d'Ulm, sede dell'Ecole Normale Supérieure, fondata nel 1794 da Napoleone, affiliata all'epoca con la Normale di Pisa. L'istituto, che tutti chiamano semplicemente "Normale Sup", ha il record mondiale di studenti con medaglie Fields. La sua particolarità è riunire insegnamenti letterari e scientifici. Qui ha studiato il biologo Louis Pasteur ma anche i filosofi Jean-Paul Sartre e Michel Foucault. "Normale Sup" ha anche sfornato cinque premi Nobel per la Fisica. 
Un livello di eccellenza mantenuto fino ad oggi. L'Ens che ha aperto altre due sedi a Lione e Cachan, è uno dei pochi atenei francesi che trova posto nella classifica internazionale di Shangai sulle migliori università. Un sistema che si basa sull'alta selezione dei futuri cervelloni già nei licei scientifici, poi nelle “classes préparatoires”, almeno due anni di preparazione per accedere al concorso d'ingresso all'Ens. “L'altro punto di fondamentale - continua Chemin - è il finanziamento dei giovani ricercatori”. Il “brain drain” è molto ridotto, meno del 3% degli studenti che si sono specializzati in Francia sono costretti a valicare il confine per trovare un posto di lavoro. Al contrario, molti matematici transalpini arrivano dall'estero. Il vietnamita Ngo Bao Chau, che ha vinto il premio Fields nel 2010, ha studiato in Francia. All'Institut des Hautes Etudes Scientifiques, tre dei cinque insegnanti titolari di cattedra sono di origine straniera. I campi di ricerca si sono anche molto modernizzati, dalla nanomedicina alle previsioni meteo, dagli algoritmi per l'alta finanza fino ai navigatori satellitari. Non è un caso insomma che il presidente François Hollande si sia vantato degli ultimi riconoscimenti internazionali ottenuti.
Una tradizione che risale idealmente al secolo dei Lumières con personaggi appassionati di matematica come Jean D'Alembert, Gaspard Monge, Joseph Fourrier. C'è stato anche il gruppo Bourbaki che a partire dal 1935 ha rivoluzionato il modo di scrivere la matematica e al quale hanno partecipatori cinque ricercatori premiati con le medaglie Fields. Quest'anno ricorre il centenario di Henri Poincaré, matematico ma anche fisico, ingegnere, filosofo. “Incarna una rara sintesi tra i vari rami della disciplina, è stato uno degli ultimi matematici universali” racconta Cédric Villani, direttore dell'istituto dedicato all'insigne scienziato morto nel 1912 e che diede un contributo all'elaborazione della teoria della relatività. Guardato con sospetto dai colleghi più seriosi, Villani è convinto che il posto del matematico sia dentro alla società. “Dobbiamo svecchiare la nostra immagine”.
Uno spirito divulgativo che si ritrova anche nei libri di Jean-Paul Delahaye, autore di volumi come “Stupefacenti numeri primi”, “Affascinati Pi greco”. Stella Baruk è chiamata invece la “fata della matematica”. La scienziata di origine iraniana ha inventato una nuova tecnica di insegnamento del calcolo fondata sull'uso del linguaggio. Baruk fa spesso l'esempio di un problema proposto in classe. “Ci sono 3 file, ognuna con 7 tavoli. Quanti anni ha la maestra?”. Molti bambini rispondono 28, senza neanche pensare al senso della frase. Il “metodo Baruk”, che prevede anche la valorizzaizone dell'errore come strumento conoscitivo, è stato applicato in molte scuole di banlieue, con sorprendenti risultati. Lo scrittore Daniel Pennac, anche lui insegnante, lo ha spesso consigliato agli alunni in difficoltà.
Le polemiche sulla didattica da usare risorgono continuamente. La Francia ha più volte rivoluzionato il metodo di insegnamento della matematica. Nel record delle medaglie Fields, delle “mathstar” e di tutta questa curiosità per i misteri della matematica, si nasconde infatti un paradosso. Il livello medio degli alunni francesi è in progressivo calo e le ore insegnate sono diminuite negli ultimi quindici anni. “Purtroppo la natura elitista del nostro sistema non ricade sulla maggioranza” ha notato Le Monde in un editoriale. Qualche anno fa è stata lanciata la petizione “Sauvons les maths!”, salviamo la matematica, proprio perché nei nuovi programmi c'era stata un'ulteriore decurtazione della materia. Un problema che non hanno avuto le migliaia di appassionati che si ritrovano nei giorni scorsi a Parigi per il campionati internazionali di giochi matematici. La competizione, rivolta a studenti ma anche ad adulti, è stata inventata proprio dai francesi venticinque anni fa.

martedì 21 agosto 2012

Astrid Lindgren, la mamma di Pippi Calzelunghe

STOCCOLMA - La macchina da scrivere, le foto di figli e nipoti, i blocchi per gli appunti, la vista sugli alberi di Vasapark. Non aveva bisogno d'altro Astrid Lindgren, chiusa dentro al suo studio, per immaginare un'eroina rivoluzionaria al comando della propria vita senza dover essere una principessa, sposarsi, imparare le buone maniere. In Dalagatan 46 tutto è rimasto come dieci anni fa, quando la più famosa autrice svedese, 145 milioni di libri venduti nel mondo, tradotta in 60 lingue anche se non ha mai vinto il Nobel, se n'è andata con un sorriso, partendo per l'ennesima avventura. E' in questa casa di cinque stanze che Lindgren è morta all'età di novantaquattro anni. “Vorrei la pace sulla Terra e qualche bel vestito” aveva risposto a chi le chiedeva cosa desiderasse per il compleanno. Fino alla cattedrale di Gamla Stan, l'8 marzo 2002, festa della donna, sfilarono il governo, la famiglia reale riunita e centomila persone. Il corteo funebre di una Regina dei cuori cresciuta in una fattoria dello Småland, tra i laghi e i boschi di betulla. Una semplice segretaria dattilografa che ha incontrato il successo per caso, ormai quarantenne.
“Raccontami una storia”. Era il 1943, Karin aveva sette anni ed era al letto con la febbre. Le venne in mente un nome. Pippi Långstrump. “Anzi, mamma, raccontami di Pippi Calzelunghe”. E' così che Lindgren cominciò a narrare, ogni sera, le gesta di una bambina talmente forte da sollevare un cavallo, sconfiggere maciste, vivere da sola con un mucchio di monete d'oro e una scimietta per amico, ignorando l'obbligo della scuola, gli ordini dei poliziotti, l'autorità in generale. “Ho trovato solo il nome, il resto è venuto tutto dalla sua fantasia” ricorda oggi Karin, che si occupa dell'omonima fondazione dedicata alla madre. Un patrimonio immenso. Oltre quaranta libri, molti racconti e storie brevi, ma anche testi teatrali, canzoni, decine di film e serie televisive, quasi tutte con il regista Olle Hellbom. Fu lui a scegliere nel 1969 l'attrice Karin Inger Nilsson, che ha incarnato il volto di Pippi, rendendola famosa nel mondo intero. Lindgren andava spesso sul set, nell'isola di Gotland, dov'è stata girata tutta la serie e fino all'ultimo minuto prima delle riprese, parlava con Hellbom per sistemare i dialoghi.
A Stoccolma, in Dalagatan 46 c'è ancora la cameretta di Karin e lo studio dove è stato finito il primo manoscritto di Pippi Calzelunghe, pubblicato nel 1945 dall'editore Rabén & Sjögren, dove Lindgren andò poi a lavorare curando tutta la collana per l'infanzia. Aveva cominciato da ragazza in un giornale di Vimmerby, la regione natale dove adesso si può visitare la vecchia casa di famiglia e un museo dedicato ai suoi personaggi, come quello che esiste a Stoccolma, sull'isola di Junibacken. Non avrebbe mai lasciato la campagna di Vimmerby se non fosse rimasta incinta a vent'anni di un uomo sposato e molto più anziano di lei. Uno scandalo per l'epoca. Lindgren fu costretta a partire per Copenhagen, dove lasciò il piccolo Lars in una casa-famiglia. Dopo tre anni, sposò Sture Lindgren, rappresentante dell'Automobile Club di Stoccolma. Nacque Karin e finalmente anche Lars tornò a vivere con la madre. Pippi che rifiuta di andare alla Casa degli Orfani è un riferimento a quella vicenda personale? “E' probabile - glissa la figlia - che quell'esperienza abbia influenzato i suoi libri”.

Appuntava pensieri e frasi a mano, la sera, su un blocco. Riprendeva molti dettagli intorno a sé. Pippi era fisicamente simile a un'amichetta di Karin. L'albero della limonata è una storia che si raccontava a proposito di un vecchio olmo della fattoria di Vimmerby, dove si giocava a “camminare senza toccare mai il pavimento”, come fanno Tommy e Annika a Villa Villacolle. I riferimenti alla sua casa natale, dov'era cresciuta libera nella natura con i fratelli, si ritrovano in altre opere, e in particolare in “Emil”, uno dei suoi libri preferiti. “Giocavamo come se non ci fosse domani” ripeteva spesso Lindgren. “Pippi le assomiglia molto” ammette Karin. “Era una donna anticonvenzionale e moto determinata”. Una protofemminista anche se, precisa la figlia, Lindgren non ha mai aderito ad alcun gruppo o associazione di donne.
Pippi Calzelunghe ha una carica sovversiva rimasta intatta. “E' incredibile, no? Dopo così tanto tempo” osserva ancora la figlia. “Non credo che mia madre avesse fatto un calcolo preciso, era semplicemente il suo modo di vedere il mondo”. Lindgren ha affrontato anche temi difficili, ad esempio il lutto o il suicidio in libri come “Mio piccolo Mio”, “I Fratelli Cuordileone”. Davanti alle critiche, ribatteva spesso: “I bambini sanno da soli cosa censurare quando leggono”. E a chi l'accusava di non dare il buon esempio, di essere una cattiva educatrice, rispondeva: “Diamo amore, molto amore e ancora amore. Il buon senso verrà da solo”.
Lindgren utilizzò la sua fama mondiale per alcune battaglie politiche. E' riuscita a far cadere un governo narrando una favola, Pomperipossa in Monismania”, nella quale denunciava un'aliquota pari al 102% del reddito. Era il 1977, il premier socialdemocratico fu costretto a dimettersi. Una legge per la protezione degli animali porta il nome Lex Lindgren, ma forse la sua vittoria più famosa è quella per bandire le punizioni corporali sui bambini. Lindgren iniziò la sua campagna contro le sculacciate in Germania, nel 1978. Invitata a ritirare un prestigioso premio, scatenò polemiche internazionali con un discorso che associava la violenza sui piccoli a quella della guerra. Un anno dopo la Svezia era il primo paese al mondo a varare una legge su questo tema, e ancora oggi la normativa è citata come esempio da seguire. “No Violence!” il testo inedito di quel discorso è stato pubblicato dalla fondazione Astrid Lindgren in occasione del decimo anniversario della morte della scrittrice. Chi è forte dev'essere anche buono, dice Pippi Calzelunghe. E, spesso, la forza non è dove si pensa che sia.

domenica 19 agosto 2012

Il cappuccio punk e ribelle delle Pussy Riot


Era stato inventato durante la guerra di Crimea per proteggere il volto dei soldati inglesi dal “Generale Inverno”. Il cappuccio apparso quasi due secoli fa, durante il conflitto tra l'impero russo e quello ottomano con i suoi alleati europei, è diventato il simbolo di un'altra battaglia. Fucsia, viola, giallo, verde, meglio se con toni accesi. Un caleidoscopio del dissenso. Di lana anche se fa caldo, tagliato artigianalmente in una maglietta di cotone, o ancora in tessuto acrilico, come quello degli sciatori ma anche degli alpinisti che scalano le montagne. Nella sua ultima versione punk e ribelle il balaklava, dal nome della città ucraina nella quale combatteva all'epoca l'esercito britannico, ha invaso le piazze occidentali. Da Parigi a Washington, nei raduni organizzati e nei flash-mob a sorpresa, è il il tratto distintivo della solidarietà internazionale con le Pussy Riot. Il passamontagna è stato indossato da Madonna durante un concerto e pure dal sindaco di Reykjavik. Ce l'avevano i manifestanti che issavano venerdì i cartelli “Free Pussy Riot” davanti al centro Pompidou, di fronte all'ambasciata russa di Berlino e Melbourne. Si ricorre alla fantasia per fabbricare questo cappuccio, ognuno ne rimedia uno con quel che ha in casa. Basta un vecchio pezzo di stoffa, delle forbici. Semplice e immediato. Mentre le ragazze aspettavano in aula la sentenza del processo, alcuni attivisti hanno avuto l'idea di incappucciare diverse statue di Mosca. La pagina web che raccoglie petizioni e notizie sul gruppo russo è composta da un mosaico di volti incappucciati e multicolori.
Strano destino per questo indumento, usato soprattutto dalle forze speciali ma anche da criminali ed eroi di fumetti come Diabolik. Il passamontagna serve a garantire l'anonimato. Nel caso delle Pussy Riot non ha funzionato. Le ragazze sono state identificate e fermate qualche giorno dopo il loro ultimo blitz contro Putin. Ma intanto il balaklava si è trasformato in una maschera universale, accompagna la nuova protesta che monta contro il regime russo e l'assurda condanna inflitta alle tre giovani punkettare. Rende quasi invincibile il messaggio delle oppositrici ormai imbavagliate. Le facce incappucciate che sono apparse furtivamente dentro alla chiesa moscovita Cristo Salvatore il 21 febbraio scorso, dovrebbero essere svanite, ormai recluse in una prigione. E invece si sono moltiplicate. Ormai si vedono ovunque. Una e centomila Pussy Riot. Ancora più dei bei volti delle giovani attiviste, è questo il marchio di una mobilitazione senza confini.
Non è la prima volta che un capo di abbigliamento viene associato a un movimento politico. E' successo con l'eskimo, il giaccone associato ai militanti di estrema sinistra negli anni Settanta, poi con la kefiah per la lotta del popolo palestinese. In tempi recenti, i ragazzi di Occupy Wall Street e il movimento degli indignati hanno manifestato con la maschera di V per vendetta. Ma il successo del balaklava arcobaleno rappresenta una sorta di beffa al pugno di ferro imposto da Vladimir Putin. Le Pussy Riot hanno spiazzato i codici dell'opposizione, dirottando il messaggio per comunicare meglio la censura del regime. Hanno provocato un'internazionale situazionista che il presidente russo non poteva prevedere. Il trio punk, grinta dietro a facce d'angelo, vestite da dure come un corpo d'élite a carnevale, sembra fatto apposta per mandare in crisi la forza bruta al governo. Sono state impertinenti persino rispetto a un femminismo tradizionale, decidendo di chiamarsi con quel nome, Pussy Riot, ammiccante ed esplicito quanto basta. Volevano restare invisibili. Il balaklava non le ha protette abbastanza. A Mosca c'è l'estate, e fa freddo.

sabato 18 agosto 2012

Perché i francesi si appassionano per la fantapolitica

PARIGI - E' uno dei libri più attesi della rentrée letteraria francese, che come ogni anno si materializza dopo l'estate con una valanga di titoli, circa seicento all'ultimo conto. “Rien ne se passe comme prévu”, nulla va come previsto, è il racconto di Laurent Binet, scrittore embedded nella squadra elettorale di François Hollande. L'autore quarantenne si era fatto notare con “HHhH”, pubblicato in Italia da Einaudi, nel quale mischiava la rievocazione dell'attentato a Reinhard Heydrich al suo lavoro di scrittura e ricerca d'archivio. Un romanzo storico molto originale che era piaciuto alla giornalista Valérie Trierweiler, incidentalmente compagna di Hollande. E' grazie a lei che Binet è stato introdotto nel cerchio ristretto del candidato, laddove nessun giornalista poteva arrivare.
Il risultato è un diario un po' stralunato di un infiltrato in quella macchina infernale che è la corsa per l'Eliseo. Leggendo gli estratti pubblicati da Nouvel Observateur in copertina si percepisce la militanza di Binet, che narra in prima persona, ed è combattuto per la simpatia con il gauchiste Mélenchon ma si convince alla fine a votare Hollande, forse con calcolo egoistico: un candidato perdente sarebbe stato sicuramente meno vantaggioso dal punto di vista commerciale. Rispetto ai tanti piccoli aneddoti svelati in “L'alba, la sera o la notte”, il ritratto che la drammaturga Yasmina Reza aveva dedicato a Nicolas Sarkozy, il diario di Binet è deludente. Mentre Sarkozy era un uomo vulcanico, atipico, sicuramente carismatico, Hollande si è imposto con lo slogan di “Président Normal” e ha fatto dell'autocontrollo la sua regola di vita. Reza aveva raccontato di un ballo improvvisato con il futuro Presidente, mentre Binet cita un bacio sulla guancia con il socialista la sera della vittoria. Nessuna rivelazione o pettegolezzo politico su Hollande “segreto”, se non qualche insulto proferito contro i suoi avversari e il rapporto quasi morboso con Trierweiler.
Non è sicuro che “Rien ne se passe comme prévu”, 290 pagine, in uscita per Grasset il 22 agosto, replicherà il successo del libro di Reza, che nel 2007 aveva superato centomila copie in un solo weekend. Mentre Reza aveva immaginato un ritratto “più umano che politico”, Binet ha fatto il contrario. La letteratura politica o di fantapolica resta comunque un genere molto frequentato in Francia. Tra i titoli più venduti dell'estate ci sono “Le Monarque, son fils et son fief”, dedicato alle guerre di potere nel feudo di Sarkozy, e “Les Strauss-Kahn”, inchiesta romanzata sulle perversioni e le disavventure di Dsk. I casi di scrittori che hanno rivestito per qualche settimana o mese i panni dei cronisti politici non mancano. L'esempio che ha ispirato molti, citato anche da Binet come modello, è il romanzo-reportage di Hunter S. Thompson “Fear and Loathing: on the campaign trail '72” sulle primarie democatiche, mentre David Foster Wallace aveva scritto nel 2000 “Up, Simba”, un racconto dedicato alla campagna dell'allora sfortunato candidato repubblicano, John McCain. In Francia è una tradizione che risale idealmente alle memorie di Saint-Simon alla corte di Luigi XIV. La traposizione romanzesca di un personaggio politico non sempre riesce, come capita con Hollande. Può dipendere dall'epoca, dal protagonista scelto o, forse, solo dalla bravura dello scrittore.

venerdì 17 agosto 2012

Quando la protesta è donna

A proposito della sentenza attesa oggi a Mosca sulle Pussy Riot. (la Repubblica 30/07/2012)

“Siamo contro la violenza, non abbiamo rancori verso nessuno. Dietro al nostro sorriso ci sono le lacrime e il nostro sarcasmo è una reazione al caos”. Nell'ultima lettera dal carcere, appena qualche giorno fa, le attiviste russe di Pussy Riot rivendicano con orgoglio la loro battaglia. Da oggi le tre ragazze affrontano il processo con l'accusa di “atti vandalici”. In realtà, la loro colpa è aver cantato il 21 febbraio, a pochi giorni dalle elezioni, una preghiera rock dentro alla chiesa moscovita Cristo Salvatore. “Madre di Dio, liberaci da Putin”, era il ritornello. Maria Alekhina, Nadezhda Tolokonnikova e Yekaterina Samutsevich, arrestate a marzo, rischiano fino a sette anni di carcere. In favore della loro liberazione si sono mobilitate star come Madonna e Sting, ma anche intellettuali come Salman Rushdie.
Con i loro volti sbarazzini, le Pussy Riot sono le ultime icone di una contestazione al femminile, ormai globalizzata. Dalla primavera araba ai cortei studenteschi in Cile, dai gruppi dissidenti in Iran e in Cina fino all'opposizione cubana, sempre più spesso la protesta è donna. Non si tratta, come un tempo, di farsi portavoce di rivendicazioni femministe, almeno non solo. Le giovani che lanciano il guanto di sfida contro le dittature lo fanno in nome di diritti e libertà universali. Cavalcano l'onda di Internet, molte di loro sono blogger, ma sanno scendere in piazza, mettersi in gioco fisicamente, usando il proprio corpo, vedi il gruppo ucraino Femen che sfila a seno nudo.
Donne contro. Con forza e coraggio, come e più degli uomini. L'esempio che vale per tutte è quello di Aung San Suu Kyi che ha scelto di sacrificare tutto, affetti e famiglia, in nome della sua battaglia democratica. La leader dell'opposizione birmana ha accettato di passare gran parte della vita in prigione costringendo infine il regime dei generali birmani ad ascoltare alcune delle sue richieste. Non è più un'eccezione. Il Nobel per la Pace del 2011 è andato a tre donne: la yemenita Tawakkul Karman e le due liberiane Leymah Gbowee e Ellen Johnson-Sirleaf. Certo, sono casi diversi. Johnson-Sirleaf è stata eletta presidente del suo paese, lavorando alla riconciliazione dopo la guerra civile, mentre Karman e Gbowee sono rimaste solo dissidenti. Ma tutte rappresentano, secondo il comitato di Oslo, la “lotta non violenta in favore della sicurezza delle donne e del loro diritto a partecipare al processo di pace". Un altro volto femminile che coalizza proteste e manifestazioni è quello di Iulia Timoshenko, guida dell'opposizione in Ucraina, arrestata un anno fa. Molti i sostegni internazionali che ha ricevuto, per ora senza risultati. Prima ancora, c'era stata la franco-colombiana Ingrid Betancourt, sequestrata dai guerriglieri delle Farc e liberata solo dopo sei anni.
Pasionarie, ribelli, barricadiere. Per ognuna di queste donne c'è la tentazione di dare facili etichette anche se nessuna di loro si assomiglia. Niente collega la studentessa Camila, che con la sua bella faccia ha reso famose le istanze del movimento cileno per la difesa dell'istruzione pubblica, con la cubana Yoani Sánchez che denuncia attraverso il suo blog gli abusi del regime castrista. Spesso sono eroine per caso, come Neda, la ragazza iraniana uccisa tre anni fa e divenuta simbolo dell'opposizione contro il regime degli ayatollah. Al di là dei risultati politici, infatti, la protesta al femminile ha un forte impatto comunicativo. I videoonline delle Pussy Riot, con i loro blitz colorati e punk contro Putin, Medvedev e altri potenti di Mosca, sono molto più cliccati che qualsiasi comunicato o sito dell'opposizione russa. La loro apparizione al processo, trasmesso in diretta, diventerà un'altra occasione di mobilitazione. Ci sarebbe stata così tanta attenzione dai media se al posto delle tre graziose ragazze ci fossero stati degli imberbi giovanotti?
“Non basta una bella faccia per portare in piazza un milione di studenti e genitori, ed avere il sostegno della maggioranza dei cileni” ha risposto qualche mese fa Camila Vallejo Dowling, 23 anni, quando era al culmine della sua notorietà. Ma c'è anche chi ha deciso di sfruttare questo vantaggio. “Prima sfilavamo normalmente e nessuno ci ascoltava. Per questo abbiamo deciso di spogliarci” raccontano le attiviste ucraine di Femen, che hanno trasformato la nudità in un atto di militanza politica. Hanno lottato (invano) contro la prostituzione e i bordelli organizzati nel paese in vista degli europei di calcio. Sono andate nelle strade di Kiev senza magliette, a volte anche solo con gli slip, e pazienza se faceva freddo. Bionde, magre, bellissime. Una militante di Femen si è buttata addosso al patriarca della chiesa ortodossa russa Kirill, come gesto di solidarietà con le Pussy Riot. “Via da qui!” ha urlato la donna, jeans e petto nudo, sostenuta da un gruppo di nazionalisti. Anche lei è stata arrestata per “atti vandalici”.
Qualche mese fa, la blogger egiziana Aliaa Magda Elmahddy ha postato su Twitter un autoritratto nel quale appariva in bianco e nero, con calze autoreggenti e solo un fiore rosso tra i capelli. Voleva denunciare così la doppia minaccia che subiscono le donne della primavera araba: quella dei militari e quella degli integralisti islamici. In Tunisia, dove pure la rivoluzione contro le dittature è incominciata, un'altra attivista, Hanane Zemali, si è spogliata in Rete contro il maschilismo e il ritorno della sharia. Altre ragazze discinte hanno sfilato nelle strade di Gerusalemme sfidando gli ultraortodossi. L'artista dissidente cinese Ai Weiwei si è fatto fotografare circondato da quattro donne. Tutti svestiti, con le mani sulle parti sensibili, e un sorriso beffardo.
Il corpo femminile è tornato a essere il medium e il messaggio. L'arma pacifica da scagliare contro l'oppressione e l'ingiustizia. E' sempre stato così, basti ricordare la leggenda di Lady Godiva, sposa del conte di Coventry che calvalcò nuda per costringere suo marito a rinunciare all'ennesimo balzello. E nell'Ottocento il pittore Delacroix riprendeva Marianne come allegoria della “Libertà che guida il popolo”, una guerriera con il seno parzialmente scoperto. Sono passati quasi due secoli ma il fascino della donna rivoluzionaria, colei che insorge, è intatto. Anzi, nella civiltà delle immagini, è diventato forse ancora più forte. Con le loro minigonne colorate e quel nome ammiccante, le Pussy Riot sono già un simbolo. Amnesty International ne ha chiesto la liberazione, dichiarandole prigioniere politiche. Per loro, si organizzano petizioni, sit-in davanti alle ambasciate, concerti rock. Tre ragazze disarmate, indifese ma molto sexy contro l'onnipotente e virile Putin. Mai sottovalutare la forza di un'icona.

martedì 14 agosto 2012

Christiania, Danimarca. La fine di un'utopia

COPENHAGEN - Quanto vale la fine di un'utopia? Settantasei milioni di corone danesi, poco più di 10 milioni di euro. Il contratto è stato firmato, dalla banca è già partito il primo acconto. Quella che si è svolta negli uffici del ministero della Difesa potrebbe sembrare una transazione immobiliare come tante. Lo Stato danese cede a privati un terreno demaniale, trentotto ettari nel centro di Copenhagen. Solo che il lotto venduto non è uno qualsiasi. Si chiama Christiania, è la più famosa comune d'Europa, uno degli ultimi esperimenti sociali tramandati dagli anni Settanta. In questa “città libera”, dove mille residenti hanno vissuto per quasi mezzo secolo in totale autarchia, sta accadendo qualcosa di impensabile. Arrivano le banche, il capitalismo, la proprietà privata. Un'eresia. I ribelli che nel 1971 avevano occupato la base navale nell'isola di Christianshavn, sognando di costruire una società più giusta e sfidando lo Stato con l'inno “I kan ikke sla os ihjel”, “non riuscirete ad ucciderci”, si sono arresi. Hanno accettato le leggi del mercato, barattando il miraggio di una rivoluzione con la certezza del mutuo a tasso fisso. Adesso sono diventati regolari contribuenti del fisco, hanno persino chiesto l'aiuto della polizia per mandare via le bande criminali che spacciano nelle loro strade.
E' una buona o una cattiva notizia? Comunque la si pensi, dopo un decennio di contenziosi, manifestazioni, scontri anche violenti, è stata finalmente trovata una soluzione. Christiania potrà continuare a esistere ma in cambio deve vendere un po' della sua anima. “Normalizzarsi”, come ripete il governo. Dal 1 luglio l'immenso parco, tra ex caserme dipinte di graffiti psichedelici, tempietti buddisti e il mercatino di marijuana, un dedalo di costruzioni decadenti, da “casa-banana” a “elicottero invisibile” fino all'ovvio “woodstock”, è diventato proprietà privata. Proprio di coloro che un tempo teorizzavano lo spazio libero, pubblico, gratuito. I “christianiti”, come si chiamano gli abitanti dell'enclave dedicata a re Christiano IV, hanno creato una fondazione che ha riacquistato dallo Stato l'intera area con vantaggioso sconto: la stima immobiliare è venti volte inferiore a quella di mercato. Così, dall'anarchia del peace&love ora si ritrovano a discutere di interessi da pagare alle banche, tasse allo Stato, riscossione di affitti, seppur calmierati rispetto al resto della città.
“Capisco lo scandalo ma era l'unico modo di salvare Christiania” spiega Knud Foldshack, l'avvocato che ha condotto la trattativa in nome e per conto dei 900 residenti, tra cui duecento bambini. Anche se la popolazione di Christiania è invecchiata, c'è stato un ricambio. Sono arrivate nuove coppie con figli, attratte più dalla natura lussureggiante che dagli ideali politici. Ormai la bohème sembra un po' alle spalle. Nei café di Christiania si beve cappuccino, non tè con funghetti allucinogeni. C'è sempre Pusher Street con i suoi banchi di hashish ed erba in pieno giorno, i cartelli che vietano di correre e scattare fotografie. Pochi metri quadrati dov'è sconsigliato venire la sera. Ma nel resto del parco, con bellissime passeggiate lungo i canali, tra uccelli selvatici e boschi incontaminati, si sono trasferiti soprattutto registi, scrittori, liberi professionisti. La loro massima ambizione? Avere più parcheggi. Non ce ne sono a sufficienza nei dintorni.
Un classico esempio di “gendrification” sulla scia di quel che accade già in altre metropoli. Solo che non doveva succedere qui, o almeno così non era stato previsto quando, il 26 settembre 1971, un gruppo di rockettari scavalcarono le recinzioni della base navale al centro di Copenhagen. Il giornalista e attivista Jacob Ludvigsen scrisse allora un articolo per annunciare l'apertura di una “città libera”. “L'obiettivo di Christiania - diceva - è creare una società autogestita nella quale ogni individuo si sente responsabile del benessere e della comunità intera. Non dobbiamo mai deviare dalla convinzione che la miseria fisica e psicologica possono essere evitata”. Da allora sono accadute molte cose. I christianiti hanno fatto da soli il sistema di fognature, si sono organizzati per la raccolta di rifiuti. Hanno sempre votato le decisioni all'unanimità perché la maggioranza non è democratica. Ci sono stati momenti esaltanti come quando gli squatters hanno partecipato alle elezioni, presentando una lista autonoma composta di soli nomi, senza cognomi, come vuole la tradizione di Christiania, oppure quando gli hippies si sono vestiti da Santa Klaus per fare un esproprio proletario di libri da regalare ai bambini. Ci sono stati anche momenti bui. Il sesso troppo libero che ha portato a diverse denunce di stupro, oppure l'eroina che si stava mangiando tutto e tutti. Nel 1979 la comunità si è divisa, alla fine hanno vinto quelli che si opponevano alle droghe pesanti. Da allora sono vietate.
Il vero mistero non è insomma come mai Christiania abbia infine accettato di “normalizzarsi”, ma come un gruppo di squatters danesi e non solo, più o meno illuminati, sia riuscito a sopravvivere così a lungo, restando unito pur nel culto della differenza, mantenendosi nell'illegalità a meno di un chilometro di distanza dal parlamento, in mezzo a uno dei quartieri più cari di Copenhagen. A pochi passi oggi c'è Noma, il ristorante di quello che è considerato il miglior chef del mondo e dove un pasto costa duecento euro a persona. Il punto di rottura è stato l'avvento, all'inizio degli anni Duemila, della maggioranza di destra. Nel suo programma legge e ordine, l'allora premier Anders Fogh Rasmussen, attuale segretario generale della Nato, aveva messo la chiusura di Christiania, considerato come un'intollerabile sfida anti-sistema. Dopo varie minacce di sgombri e qualche irruzione della polizia, un anno fa la Corte Suprema ha dato ragione al ministero della Difesa, ufficialmente proprietario dei luoghi.
Alla fine il governo si è però convinto a vendere. Cedere la zona ad altri avrebbe provocato scontri e forse un danno d'immagine. Christiania è infatti la terza attrazione turistica di Copenhagen, dopo il parco di Tivoli e la Sirenetta. Nel frattempo, è anche cambiata la maggioranza. Al governo sono tornati i socialdemocratici che hanno aiutato i residenti a lanciare una raccolta fondi, con titoli chiamati Christiania Folkeaktie. Oltre 65mila persone hanno partecipato alla raccolta fondi, portando nelle casse della fondazione poco meno del 15% dei soldi necessari. La fondazione ha avuto un prestito bancario che ora dovrà rimborsare con gli affitti e le attività interne. La comunità ha un asilo nido, un panificio, diversi bar e ristoranti, un maneggio, un teatro e un cinema, “Byen Lys”, le luci della città. Esiste una fabbrica di biciclette, molto trendy e esportate fino a New York, una tipografia, una radio, un laboratorio per restaurare macchine antiche. “Andrà tutto bene. Sono convinta che per noi è un nuovo inizio” dice Tanja Fox negli uffici che vendono i Christiania Folkeaktie. Aveva quattro anni quando i genitori occuparono una delle case dell'ex base navale. Suo padre, un fotografo americano, era scappato dalla guerra in Vietnam. Tanja ha continuato a vivere in quella casa, dove ha cresciuto i suoi figli, ora adolescenti. “Loro però vogliono andarsene, dicono che ci sono troppi turisti, sembra di stare dentro a uno zoo”.
Jean-Manuel Traimond, un francese che ha vissuto a Christiania dal 1979  al 1984, ha raccolto in un bel libro l'atmosfera poetica ed eccentrica che molti visitatori trovavano fino a qualche anno fa. C'era Oluf il Vichingo che preparava il suo tè con i funghetti allucinogeni, Marius che girava vestito da Dark Vador, il pittore Cashmere che dipingeva con il proprio sangue. Un tale Soren aveva inviatolettere ai governi europei per stabilire nuove relazioni diplomatiche mentre di sera Birthe-la-bionda voleva fare l'amore sul tetto della roulotte per essere più vicina alle stelle. Qualcuno oggi rimarrà deluso. I graffiti sbiadiscono, dentro alle case s'intravedono mobili Ikea. L'unico brivido di illegalità rimane Pusher Street, con la sua corte dei miracoli. Molti abitanti vorrebbero cacciare gli spacciatori. “Siamo per la liberalizzazione delle droghe leggere ma in attesa di una legge, se ci sono episodi criminali la polizia deve fare il suo dovere” spiega Knud Foldshack, l'avvocato di Christiania. Come in “C'eravamo tanto amati”, si potrebbe intravedere la parabola di una generazione: “Volevamo cambiare il mondo e invece il mondo ha cambiato noi”. Ma Christiania è già morta e risorta altre volte. E chissà che nei suoi vicoli alberati, tra "il pescatore di luna” e “l'arca della pace”, non sbocci qualche altro sogno.

lunedì 13 agosto 2012

"Il teatro del cuore" - Intervista Michel Maffesoli su La Repubblica

PARIGI - Nell'evoluzione della specie, s'avanza l'homo eroticus che antepone il cuore alla ragione, l'impulso alla riflessione, il piacere al dovere. “Eros è ormai trionfante, nel privato e nel pubblico” racconta Michel Maffesoli che dedica il suo ultimo libro a questa nuova figura antropologica che sviluppa e contraddice l'homo sapiens. Per il sociologo francese l'homo eroticus, l'uomo guidato dal desiderio, è al centro di quel che si chiama oggi postmodernità. Le nostre azioni non rispondono più al pensiero e al razioncinio ma all'amore, all'intricata trama degli affetti che ci avvolge, a quelle che Maffesoli definisce "comunioni emotive". E' il punto di arrivo di un percorso iniziato in Occidente, secondo lo studioso, con la liberazione dei costumi negli anni Sessanta, poi rafforzata con lo sviluppo delle nuove tecnologie, l'arretramento delle religioni e infine la crisi del capitalismo. La legge del desiderio ormai plasma la propria identità, si ripercuote nell'interno corpo sociale. Dalla cultura alla politica, tutto deve sottostare alle regole del piacere. Il paradosso di questo amore “liberato”, avverte Maffesoli, è che ha creato esseri umani ancora più interdipendenti. “Esistiamo solo attraverso lo sguardo degli altri”.
Amo, dunque sono?
“Nel scegliere il titolo del libro ero in dubbio tra homo eroticus e ordo amoris. Volevo infatti sottolineare il nuovo ordine dell'amore che si è imposto nella vita sociale ed è una delle caratteristiche della postmodernità. Mentre negli ultimi tre secoli, si è affermato una visione razionalistica del mondo, nella quale i sentimenti erano relegati nella sfera privata, oggi sono diventati pubblici e contaminano la vita sociale”.
In che modo avviene questa “contaminazione”?
“Nell'Ottocento esisteva un'espressione popolare che raccomandava di tenere sempre gli affetti dietro alle mura domestiche. Il 'muro', ormai, è stato abbattuto. Gli spazi sono comunicanti. Ci sono effetti persino nel dibattito politico, come dimostra il tweet di gelosia della première dame, Valérie Trierweiler. Un aneddoto che testimonia di un nuovo clima, l'ordo amoris di cui parlo nel libro. Il problema, semmai, è la profonda distanza che esiste tra le istituzioni, immaginate sulla base di valori e simboli ormai superati, e il corpo sociale in rapida trasformazione”.
La riscoperta degli affetti è anche un antidoto alla crisi, un riparo contro l'incertezza?
E' qualcosa di più ampio. Siamo alla fine di un ciclo. Leonardo da Vinci diceva: 'E' una cosa mentale”, espressione tra l'altro di difficile traduzione. Non è solo l'economia a essere in crisi ma la concezione economicistica del mondo che metteva il lavoro al primo posto dell'identità umana e aveva chiuso l'amore dentro al recinto del matrimonio e della famiglia, in onore a una nozione di 'utilità', per citare Georges Bataille. Dopo i movimenti di liberazione degli anni Sessanta quel modello non esiste più. Le relazioni amorose seguono invece, riprendendo l'analisi di Bataille, la regola del 'dispendio'”.
Ma anche dell'individualismo.
“Non sono d'accordo. L'individualismo nei rapporti non è aumentato, anzi oggi siamo più estroversi di un tempo. Certo, le relazioni sono diverse. Ci sono tribù che condividono momenti di comunione emotiva o di affinità elettive, come diceva Goethe. Le tribù sessuali, le tribù musicali, sportive, culturali, e così via. C'è comunque una componente emotiva nel riconoscersi e decidere di stare insieme. Gli affetti, di cui l'amore fa parte, sono il terriccio nel quale germoglia la vita”.
La continua esibizione di sé nelle relazioni non induce a citare Narciso più che Eros?
“C'è una teatralizzazione dell'amore, che si vede bene su Internet. E' un paradosso. Uno degli elementi della postmodernità è, a mio avviso, la sinergia tra l'arcaico e il progresso tecnologico. Il settanta per cento del traffico sul web è dedicato agli affetti. Non solo alla pornografia, ma anche agli incontri romantici e di coppia. E' interessante vedere come le nuove tecnologie si mettono al servizio di quella vecchia idea che chiamiamo amore, dandogli un nuovo slancio. In passato, come aveva dimostrato Max Weber, la tecnologia aveva disincantato il mondo. Oggi, invece, avviene il contrario. Osserviamo un nuovo incantesimo”.
Sta dicendo che innamorarsi, o credere nell'amore, è diventato più facile?
“C'è un ritorno del colpo di fulmine, proprio quel coup de foudre teorizzato dai surrealisti. All'epoca era un'avanguardia letteraria, oggi invece è un sentire comune. Come André Breton, pensiamo di poter incontrare Nadja all'angolo di una strada. E' un'idea che si ritrova nel cinema, persino nella pubblicità con il termine inglese 'impulse', l'impulso di un ragazzo disposto a inseguire con un mazzo di fiori una perfetta sconosciuta bradendo un mazzo di fiori”.
Un desiderio compulsivo, che tende ad esaurirsi rapidamente.
“L'amore non è consumo ma consunzione. Prima, nella concezione borghese, era qualcosa di stabile. Ora è un fuoco che brucia tutto. Si vive solo nell'intensità, parola che nell'etimo ricorda la 'tensione del momento'. E' effimero. Come ogni cosa intensa, non può durare. E' il carpe diem. Quando si assiste un matrimonio si sa già come va a finire”.
Si resta insieme solo nella buona sorte, mai in quella cattiva?
“La coppia non è più basata su un contratto, come il matrimonio, perché il tempo dell'amore non è il futuro ma il presente, mentre il passato non è mai davvero alle spalle. Si possono fare delle vacanze insieme a ex mariti o mogli, fidanzati di gioventù, figli di altre unioni. Il contratto apparteneva alla modernità. Nella postmodernità è subentrato il patto".
Un patto esclusivo?
“La fedeltà si valuta con la sincerità del momento. Ci possono essere tradimenti ma questo non significa automaticamente essere infedeli. Nel libro parlo di 'sincerità successive' all'interno di un rapporto”.
L'homo eroticus è più o meno libero?
Dopo aver promosso la libertà durante l'epoca moderna, nell'attuale postmodernità si sviluppa invece la dipendenza. L'amore è dipendenza. E' l'altro che mi crea, e mi distrugge”.
Come sono cambiate le regole della seduzione?
“La postmodernità riprende degli elementi della premodernità. E' quel che chiamo il postmedievalesimo. Oggi si rigioca l'amor cortese delle corti della Provenza o del Rinascimento a Firenze. Anche allora la vita sociale ruotava intorno alla seduzione, quelle schermaglie amorose che i francesi chiamano badinage. Molti comportamenti e linguaggi che osserviamo oggi sono simili a quel periodo. L'unica differenza è che all'epoca il codice di seduzione valeva solo per un'élite aristocratica, mentre nella versione contemporanea è diventato uno stile di vita democratico”.