Anais Ginori (Roma, 1975). Giornalista, lavora a La Repubblica dal 1999

giovedì 29 novembre 2012

La bellezza vintage delle nonne

Mamma, voglio contare queste pieghette”. Il figlio cinquenne che chiede di giocare con le rughe sulla faccia della madre ha ragione: quanto sarebbe noioso guardare un volto che non racconta nulla su chi siamo, da dove veniamo. Una pagina bianca. Per ogni “pieghetta” c'è l'indizio di un sorriso, un dolore. Quasi un libro aperto, una mappatura in divenire nella nostra esistenza. E' quel che affascina seguendo la faccia accartocciata eppur magnifica di “Super Mamika”, la nonna del fotografo Sacha Goldeberg trasvestita da super-eroina dei fumetti. Sei anni fa, Goldberg ha incominciato questo progetto artistico con la sua “mamika” (nonna, in ungherese), 93 anni, riprendendola nelle situazioni più spericolate e assurde. Ne è venuto fuori un racconto visionario e originale, cliccatissimo sul web (“mamika” ha anche la sua pagina Myspace, un blog), e ora in mostra a Parigi nella galleria Sakura. Anche il fotografo Ari Seth Cohen si è messo a collezionare con il suo obiettivo alcune sofisticate signore di terza e quarta età nel suo blog (poi libro) “Advanced Style”. La bellezza vintage piace ed è una sana reazione al diktat giovanilista. Anche gli stilisti si adeguano. Nell'ultima pubblicità di Lanvin appare Jacqueline Murdoch, ex ballerina di 82 anni. A settembre, durante la fashion week di New York, ha sfilato una modella di 81 anni, Carmen Dell'Orefice. Il “granny style” è una miscela di raffinatezza e arte di vivere. Chi ama le nonne sa quant'antica sapienza spesso abbiano nel crearsi uno stile proprio, portando un gioiello o una sciarpa senza badare alla moda del momento. Un atteggiamento di superiorità: finalmente liberate dal dilemma tra rughe e botulino, le "mamika" possono buttarsi in nuove avventure. Una lezione di anticonformismo per le più giovani.

mercoledì 28 novembre 2012

A chi non piace la parola "femminismo"

La mia generazione non ha bisogno di essere femminista”. Sarebbe facile liquidare con ironia o fastidio l'intervista a Vogue di Carla Bruni Sarkozy (titolo: “Il grande ritorno”) soltanto perché a parlare è un'ereditiera piemontese, poi mannequin, cantante, première dame, amica della gauche caviar e sposa dell'ex presidente “bling bling”. Difatti nel testo precisa: "Non sono affatto militante femminista. Sono una borghese", immaginando un falso conflitto di classe.
Carla Bruni Sarkozy è una donna intelligente, sofisticata, anche se non abbastanza da accettare l'eleganza delle rughe sul suo volto. Bisogna riconoscere che ha ragione. Intanto, perché gran parte delle battaglie sono già state fatte da madri, nonne e bisonne. E poi perché molte donne la pensano come Carlà. Non a caso quei furbacchioni del magazine di moda usano nell'intervista la parola “femminismo” come una trappola, uno spauracchio. Femminista, io? Per carità. Più si scende con l'età e più l'etichetta suona retrograda, obsoleta, se non proprio repellente. Trovare una ventenne che osi dichiararsi femminista è un'impresa. Nell'immaginario collettivo è rimasto un ricordo di streghe ammazzamaschi, e non il coraggio e la generosità di chi ha conquistato per tutte - spesso pagando un prezzo personale - libertà e diritti impensabili fino a qualche generazione fa.
Che sia troppo presto per gridare vittoria e passare ad altro è purtroppo chiaro. Si è appena celebrata la giornata contro la violenza sulle donne che anziché diminuire aumenta come un imprevisto contraccolpo dell'emancipazione (il "backlash" teorizzato da Susan Faludi), e già questo basterebbe a provocare uno spirito di sorellanza. Le donne lavorano tre ore in più al giorno degli uomini (tra casa e ufficio), guadagnano un quinto in meno dei colleghi maschi, sono le prime licenziate in caso di ristrutturazione. La libertà femminile non è più una questione che si misura in centimetri di minigonna. E' qualcosa di più profondo, culturale. Rispetto a quarant'anni fa, serve un cambio di mentalità, non bastano più leggi e manifestazioni, e questo rende il compito ancor più difficile.
Dicono bene alcune militanti americane che hanno inventato lo slogan: "Non sono femminista, sono umanista". Difendere la parità tra i sessi dovrebbe essere preoccupazioni di tutti, donne e uomini: una conquista per la società intera. Eppure il viaggio della parola “femminismo”, con una percezione quasi opposta tra madri e figlie, racconta già molto del fenomeno di riflusso inziato negli anni Novanta. Qualcosa si è interrotto, quella storia non è stata sufficientemente insegnata, rivendicata. Sarebbe utile insegnare a parlare di "femminismi". Tante e diverse erano e sono tuttora le voci attraverso un secolo, talvolta anche in conflitto aperto, dalle suffragette ai gruppi queer. Per paradosso, pochi giovani studiano e conoscono l'immensa ricchezza e varietà di quel movimento che come disse Eric Hobsbawn è "l'unica vera rivoluzione sociale del Novecento". E pazienza se la parola è così poco glamour.

giovedì 25 ottobre 2012

Il tempo maschio. Intervista ad Anne Marie Slaughter

Anne Marie Slaughter si è cullata nella promessa di un certo femminismo, soprattutto americano, secondo il quale bisognava “have it all”, avere tutto: realizzare ambizioni famigliari e professionali. Poi un giorno, passati i cinquant'anni, ha deciso che non era più possibile. Il pentimento è arrivato dopo aver faticosamente raggiunto i suoi sogni. Madre di due figli, lavorava al Dipartimento di Stato, prima donna nominata Director of Policy Planning, tra le collaboratrici più in vista di Hillary Clinton. Orari massacranti, riunioni e trasferte continue, e il tormento di non essere mai davvero in pari con la vita. Qualcosa che manca sempre, in ufficio ma anche a casa. “Ho detto basta e non me ne pento” racconta ora Slaughter che oltre a essersi dimessa con fragore dal suo incarico governativo ha deciso di fare un suo personale outing dalle colonne dell'Atlantic Monthly.
Non è la sola. “Faccio politica per migliorare la vita degli altri, non per peggiorare la mia” ha detto Axelle Lemaire, trentenne deputata socialista che ha rifiutato di diventare ministro nel governo francese perché troppo indaffarata con i pargoli. E' come una controrivoluzione silenziosa, un movimento di donne in carriera che si arrendono, a metà corsa, schiantate da quelle che Slaughter chiama “tempo macho”: l'organizzazione del lavoro ancora basata sui ritmi maschili. “Credo che sia venuto il momento di essere sincere - spiega a Repubblica la professoressa di Princeton - e ammettere che, a certi livelli di responsabilità, la conciliazione tra professione e famiglia diventa impossibile”.
Una posizione iconoclasta, quasi una dichiarazione di resa, proprio mentre tante donne arrivano ai vertici politici e imprenditoriali. Il lungo articolo di Slaughter pubblicato a luglio, “Why women still can't have it all”, è stato uno dei pezzi più letti e commentati nella storia del magazine statunitense, ripreso in decine di paesi, con reazioni spesso critiche. “Mi aspettavo le critiche delle femministe della mia generazione sul fatto che sto dando un cattivo esempio oppure che propongo riforme irrealizzabili. Ma non avevo previsto che l'articolo sarebbe diventato 'virale', attraverso il web e altri giornali, scatenando una conversazione planetaria tra persone di ogni età”. Persino Hillary Clinton si è schierata qualche giorno fa contro il “piagnisteo” di certe working women, anche se poi ha precisato che non si riferiva a Slaughter.
“Il mio obiettivo - spiega l'autrice - era dare voce alle donne che scoprono, dopo aver avuto bambini, di non poter diventare amministratore delegato o direttore generale, di dover ritardare una promozione”. Una situazione colpevolizzante, che porta spesso a rinunciare alla proprie ambizioni. “E' un tema politico che dovrebbe indurci a cambiare il nostro sistema economico e sociale”. Slaughter è partita dalla sua esperienza, dalla difficoltà nell'accudire figli adolescenti mentre svolgeva un incarico pubblico prestigioso a Washington, per scrivere una sorta di manifesto. Da una parte, racconta, c'è una pressione sociale sulla maternità, con vecchi stereotipi, e dall'altra una cultura del lavoro pensata per uomini d'altri tempi.
Slaughter racconta di aver dubitato a lungo prima di scrivere le ragioni che l'hanno convinta a lasciare il Dipartimento di Stato. Poi, parlando davanti a un gruppo di studentesse, si è convinta che fosse venuto il momento di “dire la verità”. “Le giovani di oggi sono abbastanza coraggiose e intellettualmente preparate per sapere che non è tutto così facile”. I “role model” che scoraggiano le nuove leve, ribatte, sono altri. “Ad esempio, vedere donne che hanno scalato il potere accettando di pagare un prezzo personale. Molte ragazze, e ormai anche ragazzi, non vogliono più sacrificare la loro vita privata”. Proprio mentre usciva l'articolo sull'Atlantic Monthly, Marissa Mayer veniva nominata alla guida di Yahoo con il suo bel pancione. Un caso che non è rappresentativo, secondo Slaughter. “Negli Usa ci sono solo il 15% di dirigenti donne e tra le prime 1000 aziende della classifica di Fortune appena 35 società hanno una leadership femminile”.
Il “tempo macho”, spiega l'autrice, è una trappola insidiosa non solo per le donne. “Alcuni padri mi hanno contattato per dirmi che anche loro si sentono vittime” spiega Slaughter. “Dobbiamo insieme ripensare le aspettative fondamentali su dove, come e quando viene svolta l'attività lavorativa”. La professoressa di Princeton invita alla “creatività” per sviluppare strumenti di flessibilità, come il telelavoro, il coworking o il part-time. “Sia uomini che donne avrebbero tutto da guadagnare se si incominciasse a misurare la produttività sui risultati e non sulle ore in ufficio”. Oggi il picco di carriera coincide con il momento nel quale i figli sono ancora piccoli e i propri genitori cominciano a essere anziani. E' l'Exhausted Generation, la generazione esausta battezzata dall'Economist, schiacciata da doveri privati che non si possono rimandare. “Bisognerebbe immaginare percorsi professionali meno intensivi e più lunghi” propone Slaughter. “Anziché una parete verticale da scalare, la carriera deve diventare una serie di gradini, con soste e persino lievi cadute”.
Anche nella coppia bisogna dare prova di immaginazione. “Non esiste un unico modello. Alcuni genitori cercano di dividere le responsabilità equamente, bilanciando i compromessi, com'è capitato a me e mio marito. Altre coppie agevolano uno dei due genitori, magari perché guadagna di più, è più coinvolto, ha migliori opportunità di avanzamento. L'eguaglianza di genere significa che queste scelte devono essere libere e non condizionate da vincoli sociali o stereotipi”.
Avere o non avere tutto. Dopo la pubblicazione dell'articolo, Slaughter ha ricevuto molte critiche per l'uso di questa espressione assolutista. “Per la mia generazione - ricorda - era scontato che si potesse avere il meritato successo professionale senza dover rinunciare ai figli. Viste le reazioni al mio articolo mi sembra che l'ideale per cui tre generazioni di femministe si sono battute è ancora molto popolare”. La possibilità di rinunciare a un incarico di alto livello o di “dosare” l'impegno professionale è un lusso che molte donne non si possono permettere. “Certo - risponde Slaughter - so che i problemi di cui parlo appartengono a un'élite fortunata che può decidere come e quanto implicarsi nel lavoro. Ma io mi occupo di come agevolare la vita delle donne che aspirano ai vertici di aziende o incarichi governativi. Il cosiddetto 'soffitto di vetro' è qualcosa di molto più complesso di quel che sembra”.
Sono ormai tre mesi che Slaughter passa le sue giornate a rispondere a messaggi, è invitata a trasmissioni, e arringa le folle sulla “conciliazione impossibile” tra famiglia e professione. Nel frattempo, continua a insegnare a Princeton, pubblica articoli in riviste specializzate, partecipa a conferenze e dibattiti televisivi per parlare di Siria o di elezioni americane. Ma il suo lavoro accademico è passato quasi in secondo piano. Sta preparando un libro sulle donne che sarà pubblicato in Italia da Sperling&Kupfer. Polemica e felice di esserlo. “Non mi posso lamentare”.

mercoledì 10 ottobre 2012

Quando la rivoluzione è nuda

PARIGI «Spogliati e vinci» ripete Inna mentre fa la sua lezione. Undress and win. Lo slogan è efficace anche se si presta ad equivoci. Nel Lavoir moderne, teatro del diciottesimo arrondissement, non si svolge uno dei tanti corsi di burlesque. Qui si parla di gestione del conflitto in strada, resistenza passiva ai poliziotti, tecniche di autodifesa. C' è un programma che prevede ginnastica mattina e sera. Al centro del palco un grande pungiball contro il quale assestare i colpi e, accanto, un guardaroba con delle finte uniformi delle forze dell' ordine per simulare il "corpo a corpo", altra espressione ambigua. 
Niente è come sembra con Inna e le ragazze di Femen che hanno imparato a usare la propria nudità come un' arma pacifica. Il gruppo femminista nato a Kiev nel 2008, dopo le speranze tradite della rivoluzione arancione, ha organizzato decine di proteste in giro per il mondo, sempre con il gusto della provocazione. Hanno urlato a Vladimir Putin: «L' Ucraina non è Alina!», alludendo alla ginnasta, presunta amante del leader russo. Qualche mese fa un' attivista si è buttata addosso al patriarca della Chiesa Ortodossa, con scritto sul petto: «Kill Kirill!». Le militanti si sono denudate sotto la neve in Svizzera, al forum di Davos, dove il presidente Yanukovich aveva detto che «per amare l' Ucraina basta vedere le donne». La primavera scorsa hanno bussato a casa di Dominique StraussKahn, travestendosi da cameriere. Prima ancora, erano venute a spogliarsi a Roma, contro "l' utilizzatore finale", Silvio Berlusconi. Colorandosi la pelle a strisce verde, bianco, rosso, avevano cantato "Berlo Ciao". 
 Ogni perfomance dura pochi minuti. Il corpo è il medium e il messaggio. Un femminismo disinibito e pop che viene dall' Est, simile a quello punk delle Pussy Riot. «Ma noi siamo arrivate prima» rivendica Inna Shevchenko che comunque si trova a Parigi proprio a causa della solidarietà con le militanti russe. Il 17 agosto scorso, giorno del processo a Mosca contro la band, Inna ha tagliato con una motosega un gigantesco crocifisso nel centro di Kiev, denunciando la complicità della Chiesa ortodossa nella repressione. La polizia è venuta a cercare Inna all' alba per arrestarla con l' accusa di "atti vandalici". Lei ha fatto in tempo a scappare. Direzione Francia, dove alcune "sorelle" le avevano promesso un rifugio sicuro. Chissà cosa avrebbe pensato Simone de Beauvoir con le sue camicette accollate e lo chignon mai fuori posto dell' utilizzo politico del topless, lei che non considerava la femminilità come un destino naturale, obbligato. Da quando Femen ha aperto il centro di addestramento a Parigi decine di ragazze si sono già iscritte. Inna dice che sono nati gruppi anche in Olanda, in Gran Bretagna, persino in Brasile. 
Sembra paradossale che l' origine di questa tecnica di protesta sia stata inventata in Ucraina dove, secondo Inna, «il femminismo non è mai neppure arrivato». Femen non ha neanche appoggiato l' ex primo ministro e leader dell' opposizione Yulia Tymoshenko, ormai in carcere e per cui molti intellettuali si sono mobilitati. «Al di là dell' arresto, che ovviamente è sbagliato- spiega la leader di Femen - consideriamo Tymoshenko collusa con il sistema della mafia maschile al potere». Svestirsi non per essere guardate, ma per farsi ascoltare. Insieme a Inna, nella squadra parigina, ci sono Stephanie, Alexandra, Safia. Tutte ventenni, sexy, toste. «Ma dentro a Femen ci sono anche una ragazza obesa e una signora di 64 anni - precisa Inna - e non siamo per escludere gli uomini». C' è un fotografo quasi "ufficiale". Ci sono dei giovani che fanno i sopralluoghi per preparare i blitz. Ogni azione è pensata per avere il massimo risalto mediatico. La comunicazioneè studiata nei minimi dettagli. Non a caso Inna ha frequentato la scuola di giornalismo a Kiev e lavorava come ufficio stampa. Le perfomance di Femen si diffondono come un virus, tra stupore, imbarazzo e qualche ironia. «Molti dei nostri video - racconta Inna - sono censurati su YouTube e Facebook. Un' assurda ipocrisia, quando si sa quali sono i veri materiali pornografici che circolano su Internet». 
A pochi passi dal centro parigino di Femen, c' è la moschea de la rue Myrha. Il quartiere della Goutte d' Orè un crocicchio di culture e religioni. «Stare qui dimostra esattamente chi siamo: ragazze coraggiose che non si fanno condizionare da chi ci circonda». Il motivo del successo tra le ventenniè forse questo: proporre una miscela di coraggio virile ed erotismo femminile. Nel corso viene insegnato come filmare ogni azione, per poi diffonderla sul web. Inna fornisce alle militanti consigli come: «Togliersi la maglietta nel minor tempo possibile e girarsi subito a favore dei fotografi». Sul petto, viene sempre dipinta di nero qualche scritta. "Dio è donna". "Nudité, liberté". Le militanti più spiritose usano anche i colori, variando da un seno all' altro. Molte indossano una corona di fiori, simbolo in Ucraina di castità e purezza. «Con le nostre azioni - spiega Inna - cerchiamo di sovvertiree manipolare tutti i simboli del maschilismo».
È difficile trovare un filo conduttore nelle tante proteste di Femen. Sfogliando la galleria fotografica di questi ultimi quattro anni, che Inna ostenta con orgoglio, si trovano bersagli ovvi come Putin, Berlusconie Dsk ma anche la solidarietà con i giornalisti perseguitati in Georgia, l' iraniana condannata alla lapidazione Sakineh, i ragazzi di Occupy Wall Street, e persino la difesa degli animali maltrattati nello zoo di Kiev. L' unico vero tema ricorrente è il diritto all' autodeterminazione delle donne - il famoso "Io sono mia" - e la battaglia contro la prostituzione. "L'Ucraina non è un bordello"è stato lo slogan del gruppo durante le manifestazioni contro il turismo sessuale collegato agli europei di calcio. «Il destino delle donne nel nostro paese è segnato: ti puoi sposare, oppure prostituirti. In ogni caso sei schiava dell' uomo». In Francia, come altrove in Europa, la situazione è più sfumata, esistono associazioni di "sex workers" fiere del loro mestiere. «La prostituzione non è mai libera» ribatte Inna che sembra avere pochi dubbi, come quando dice: «Il vecchio femminismo, fatto di conferenze e cortei, non funziona più. Noi siamo il futuro». 
Il dubbio è che, alla lunga, anche l' effetto sorpresa svanisca. Molte organizzazioni di donne sostengono che le performance di Femen servano solo a confermare e rafforzare una visione maschile del mondo. «Accade l' esatto contrario - replica Inna - la nostra nudità disturba e spiazza gli uomini proprio perché non sono loro che decidono come e quando ci dobbiamo spogliare e cosa fare del nostro corpo». Un anno fa, Inna e altre tre ragazze di Femen sono venute in Italia. «Da voi - ricorda - ho partecipato a una trasmissione tv abbastanza maschilista. Ma non importa: per lanciare le nostre denunce siamo pronte ad andare ovunque. Potremmo persino accettare di fare la copertina di Playboy». Una coniglietta femminista? «Perché no?».

lunedì 10 settembre 2012

L'amore azzurro di Edith Piaf

PARIGI - Nella policromia amorosa di Edith Piaf, c'è stato l'amour bleu. Amore azzurro come un cielo spazzato via da cattivi presagi, come il ghiaccio che brucia le mani. Per meno di un anno, qualche mese appena, il ciclista Louis Gérardin, biondo campione dell'epoca, è stato per la cantante francese “mon ange”, “mon adoré”, “m'amour”, addirittura “messia”, “padrone”, “settima meraviglia”. Nelle decine di lettere che Piaf ha mandato al suo amante segreto tra il 1951 e il 1952, e tradotte dal francese nel libro “L'amore azzurro”, si scopre una passione tanto più breve quanto divorante, travolgente. “Non posso più aspettare”. “Vado verso la catastrofe”. “Sono niente senza di te”.
In quel momento, la cenerentola di Belleville ha già cantato “La vie en rose” e “Hymne à l'amour”, è ormai da tempo una diva strapagata e richiesta in tutte le capitali occidentali. A soli trentasei anni, già consumata da alcool e morfina, questo scricciolo di donna custodisce sé una forza incredibile, una voce magnetica che “ha sconvolto il mondo” come recita la targa sulla sua casa parigina. Ha alle spalle una carriera sentimentale movimentata, è un'ottima preda per i giornali scandalistici che hanno seguito ogni sua conquista. Yves Montand, Paul Meurisse, Eddie Constantine, tra gli altri. Non è un mistero che si sia generosamente concessa, dilapidando non solo fortuna e salute. Cresciuta nei postriboli delle cugine in Normandia e nella carovana circense del padre, la piccola Edith Giovanna (sua madre, cabila, era nata in Italia) Gassion è stata svezzata presto. Appena diciottenne, viene costretta a prostituirsi per pagare la sepoltura della figlia morta precocemente di meningite.
Quando incontra il ciclista un po' dandy al Velodrome d'Hiver, Piaf è reduce da un altro dei tanti lutti che hanno costellato la sua vita. Dopo il suo pigmalione Louis Leplée, ucciso durante una rapina, è il pugile Marcel Cerdan, suo grande amore, a morire in un incidente aereo nel 1949. Con Gérardin, chiamato anche “Toto”, la cantante vuole credere in un nuovo inizio. Nella sua prima lettera, il 15 novembre 1951, giura subito “amore eterno”. “Sarai l'unico”. “Tutto comincia e finisce con te”. “Sono così felice di appartenerti per sempre”. A un certo punto, come prova decisiva, confessa di aver tolto dal suo appartamento la foto di Cerdan. La nuova coppia è costretta a incontri clandestini. Gérardin è sposato da quasi dieci anni. “Capisco il tuo tormento, mio chéri, ma non saresti né il primo né l'unico a lasciare la moglie”.
Tra uno spettacolo e l'altro, lontana per qualche giorno dal suo amante, Piaf mette su carta, semplici fogli di un quaderno, un flusso ininterrotto di parole, pensieri, sogni. Frasi lunghe e sconnesse, senza virgole, con frequenti errori di ortografia, molti punti esclamativi, parole sottolineate. “Je t'aime” ritorna continuamente, è addirittura scritto con la “m” ripetuta sedici volte come ancora oggi usano fare le adolescenti negli sms. La Môme, in amore, è davvero una ragazzina.
Uno slancio totale, assoluto. Durante ogni separazione, che sia in tournée a Marsiglia o negli Stati Uniti, pretende a distanza conferme, promesse, certezze. Piaf vive in una fusione di amorosi sensi. “Sei nelle mia pelle”, scrive proprio come il titolo di una canzone che interpreterà qualche anno dopo. Anche le allusioni alle furtive notti passate in qualche albergo a ore, “Les Amants d'un jour”, sono esplicite. “Ti bacerei dappertutto, ma proprio dappertutto”. Non ha alcun pudore nel raccontare le sue fantasie erotiche su Gérardin, soprannominato “amour bleu” per gli occhi azzurri. Piaf parla delle sue “belle cosce” e del suo “bel sedere”. “Nessun uomo mi ha presa come te”.
Un desiderio che non prevede compromessi. “Tu me fais tourner la tête”, Gérardin fa veramente girare la testa alla stella della canzone francese. Le missive si fanno via via più pressanti. Non basta il telefono. “Toto” riceve anche tre lettere al giorno. Se non risponde, la cantante manda telegrammi a casa dei genitori di lui. La moglie del ciclista, Bichette, lo ha fatto pedinare da un detective, ha scoperto tutto e denunciato gli amanti per ricettazione di beni. Messo alle strette, il campione sceglie di andare a vivere con Piaf in un appartamento a Boulogne, vicino a Parigi. Dura poco. La corrispondenza, oggi di proprietà del Musée des Lettres et des Manuscrits, è purtroppo pubblicata a senso unico. Non conosciamo le risposte del ciclista alle decine di epistole. Ma si percepisce un'insofferenza crescente del destinatario per le intemperanze della Môme, che replica: “Ti prometto che smetterò di bere”. “Sarai tu a tenere tutti i conti”.
Nella primavera 1952 Gérardin raggiunge la cantante a Lille, dove è in concerto, per annunciarle che tornerà da Bichette. Piaf non crede alla rottura. Continua a immaginare di comprare insieme a “Toto” una casa “con belle lenzuola bianche”, di fare un figlio insieme al suo amante. Paragona il ciclista al compianto padre, Louis Gassion, “l'unica mia vera famiglia”. “Se Dio lo vorrà, sarai tu a darmi tutto ciò che ho perso” scrive Piaf che ha un'indistruttibile di fede da quando, ancora bambina, è stata guarita da una grave cheratite dopo un pellegrinaggio. Nelle missive d'amore la cantante cita le sue preghiere e confessa di aver acceso un cero in una chiesa per propiziare la storia con Gérardin.
Tre mesi dopo l'ultima dichiarazione d'amore, il 18 settembre 1952, Piaf manda ai genitori di Gérardin un'ultima missiva dagli Stati Uniti. Comincia così: “Quanto riceverai questa lettera, sarò sposata”. Negli Stati Uniti, ha rivisto il cantante Jacques Pills colui che le scriverà la famosa canzone “Je t'ai dans la peau”. Il discreto matrimonio si celebra nella chiesa francese di New York. Piaf ritrova così un compagno con cui condividere la sua arte, com'era già accaduto in passato. La sua testimone di nozze è Marlene Dietrich. E' l'attrice a regalarle un sobrio vestito da sposa. “Ti avevo avvertito mille volte che mi avresti persa, ma non hai mai reagito - scrive la cantante a Gérardin -. E' successo quel che doveva accadere. A forza di stare accanto a una persona tenera, gentile e piena di attenzione ci ho preso gusto e devo ammettere che ora amo sinceramente Jacques!”. Qualche anno dopo, “Toto” rincasato smette anche di gareggiare. Diventerà uno dei migliori allenatori del ciclismo francese. La Môme nel frattempo ha già divorziato da Pills. Nel suo caleidoscopio sentimentale, tocca al ventiquattrenne "Milord" Georges Moustaki. Per la cantante che si vantava di usare abiti di scena solo neri “come un'uniforme” è l'inizio di un'altra passione, un altro colore da indossare.

giovedì 6 settembre 2012

Il libro che rompe il tabù dell'incesto

PARIGI - L'uomo è in bagno, ha lasciato la porta socchiusa. Ordina alla ragazza di avvicinarsi. La fa inginocchiare. Il resto è una lunga sequenza, a tratti insostenibili, di sottomissione sessuale. Sono le prime pagine di “Une semaine de vacances”, il nuovo libro di Christine Angot, scrittrice francese abituata a fare scandalo. Il libro narra l'iniziazione di una giovane vergine nel chiuso di una casa di vacanza. Non sono i dettagli osceni che si susseguono a disturbare il lettore ma la relazione pedofila che si crea tra l'uomo e la ragazza. Un padre e sua figlia.
L'incesto, tabù universale su cui ogni società si costruisce, è raccontato nei dettagli più morbosi, con un stile disumano e scarno. Prima ancora di essere pubblicato, l'uscita è prevista per oggi, il libro di Angot ha scatenato un acceso dibattito tanto da conquistarsi ieri la prima pagina di Libération. Un romanzo-evento come succede spesso in Francia, paese nel quale gli scrittori di narrativa possono aprire polemiche trasversali, incrociando la cultura e la politica. Nell'intervista pubblicata dal quotidiano francese, l'autrice difende la sua scelta. “L'incesto non è un qualcosa di privato o intimo, è qualcosa di sociale, di politico” spiega Angot. I casi di molestie sessuali all'interno della famiglia diventano spesso un segreto inconfessabile sul quale si preferisce stendere un velo di omertà.
Anche per la scrittrice francese è stato così. Cresciuta con la madre e la nonna, Angot ha conosciuto solo a quattordici anni suo padre, un traduttore del parlamento europeo, descritto come un uomo poliglotta, colto, amante della buona tavola. Le violenze sessuali che la giovane Christine subisce allora vengono ignorate o passate sotto silenzio da gran parte dei suoi parenti e amici. Nel racconto letterario, la protagonista ha sedici anni ed è completamente asservita ai desideri del suo padre-padrone che mentre abusa del suo corpo le ordina di dire: “Ti amo, papà”. Le centoquaranta pagine del romanzo si soffermano su particolari raccapriccianti, un'indagine anatomica di ogni servizio sessuale richiesto, in un crescendo di perversione senza limiti. Uno shock letterario che, secondo Angot, dovrebbe provocare un presa di coscienza. “Ho capito - spiega - che la dimensione sessuale dell'incesto non è chiara a tutti, molte persone non realizzano cosa accade davvero”.
La scrittrice aveva già rivelato gli abusi di cui era stata vittima pubblicando nel 1999 “L'Incesto”, tradotto anche in Italia. Ma allora le violenze erano solo accennate. Questa volta la scrittrice riprende il racconto con minuzia scientifica, usando il tono impersonale del narratore. E' uno dei suoi pochi libri in terza persona. Una scelta, spiega, che permette anche di elaborare la violenza pedofila e di presentarla al lettore senza il filtro delle emozioni. L'utilizzo dell'Io ha contraddistinto tutta la sua opera così come i riferimenti autobiografici. Angot è considerata un'esponente di spicco dell'autofiction, genere molto frequentato dagli scrittori francesi spesso accusati di essere “nombrilistes”, concentrati solo sul proprio ombelico.
Con il suo gusto per la provocazione, l'autrice cinquatrenne è amata e odiata dalla stampa francese. E' un'ospite apprezzata dalle televisioni perché capace di sostenere polemiche e accendere risse in diretta. Spesso se la prende con i suoi editori, ha esordito con Gallimard per approdare oggi a Flammarion, dopo aver abbandonato Le Seuil che pure l'aveva ingaggiata con un lauto compenso. Amata e odiata, non lascia mai indifferente. Coccolata da testate come Liberation e il settimanale Inrockuptibles, è stata invece definita un “vampiro” dal Nouvel Observateur.
Nei suoi romanzi, quasi venti dal debutto nel 1990, fa continue allusioni ad amici e conoscenti. Non sempre finisce bene. L'ex moglie del cantante Doc Gyneco, con cui Angot ha avuto una turbolenta passione, l'ha denunciata per violazione della vita privata, riconoscendosi in ben due dei suoi libri. Separata, madre di Léonore alla quale ha dedicato molti dei suoi primi romanzi, ha collezionato amanti per poi servirsene come materiale letterario. Angot si paragona per la durezza della scrittura a Marguerite Duras. “Disturba perché è una donna, questo è il suo più grave difetto” chiosa Libération. La pervicace ricerca dell'oscenità è per lei il meccanismo con il quale svelare le zone d'ombra della società, la dominazione sessuale e famigliare sugli individui. Sull'incesto, che torna continuamente nei suoi libri, Angot ha preso spunto da Anaïs Nin ma anche dall'Edipo re di Sofocle. “Non sono certo la prima a parlarne, eppure ogni volta c'è qualcuno che riesce a distogliere lo sguardo, a coprirsi con una maschera”. Forse ora non sarà possibile, almeno per i temerari che avranno voglia di aprire il suo nuovo libro.

mercoledì 5 settembre 2012

Prostituzione, le ombre dietro al modello svedese

STOCCOLMA - Camminando nel deserto di cemento di Malmskillnadsgatan, nessuno potrebbe sospettare che fino a qualche anno fa proprio in questa strada ci fosse il più famoso quartiere a luci rosse della città. Niente più squillo né luci al neon. La via di Stoccolma è stata interamente ripulita, il marciapiede è battuto solo dai frettolosi passi degli impiegati dei vicini ministeri oppure dai turisti che si dirigono verso Hamngatan, il grande corso commerciale. Questo è il risultato più evidente del “Sexköplagen”, la legge contro la prostituzione che la Svezia ormai presenta nel mondo come modello.
L'ultimo paese che vorrebbe seguire questo esempio è la Francia. Il ministro per le Pari Opportunità, la giovane Najat Vallaud-Belkacem, ha annunciato di volersi ispirare al “Sexköplagen” per “abolire la prostituzione”. Anche il parlamento europeo ne ha più volte discusso e persino il presidente cubano Raul Castro sostiene di aver pensato di imitare l'approccio svedese. Un cambio di prospettiva che ha fatto epoca. Anziché punire la prostituta, come avviene in gran parte dei paesi, qui si sanziona il cliente. Nel linguaggio asettico della normativa, approvata nel 1999, si prevede infatti di punire i “consumatori” che hanno “acquistato servizi sessuali”. Il ragionamento dei promotori della legge non fa una piega: senza la domanda, non ci sarà più l'offerta.
E' la solita ipocrisia” ribatte Petra Östergren (nella foto), professoressa di antropologia all'unviersità di Lund e autrice di un rapporto che vuole denunciare le ombre del modello svedese. Oltre dieci anni dopo, il bilancio della legge è ancora controverso. Il ministero della Giustizia ha calcolato che la prostituzione nelle strade è diminuita di metà nell'ultimo decennio. In tutto il paese, cifre della polizia, ci sarebbero attualmente meno di trecento sex workers. Un numero contestato da Östergren che ha incrociato gli annunci online e ha intervistato molte lavoratrici del sesso. Secondo l'antropologa svedese la cifra reale è molto superiore. “La legge è solo un modo di nascondere il problema sotto al tappeto” spiega Östergren che, mentre il modello svedese conquista nuovi adepti, sta cercando di diffondere il suo contro-rapporto, tradotto anche in francese e inglese, con lo scopo di “smascherare un'illusione”.
La pulizia di Malmskillnadsgatan potrebbe insomma essere un abbaglio. Pye Jacobsson ha fondato Rose Alliance, un'associazione di sex workers. “Non è possibile fare un paragone con il passato perché lo Stato non ha mai avuto cifre affidabili sulla prostituzione nelle strade” racconta. “Da noi - aggiunge - l'attività all'aperto è stata sempre ridotta per un semplice motivo: fuori fa freddo”. Jacobsson sostiene che, da quando è entrata in vigore la legge, le prostitute sono costrette a lavorare in modo clandestino, in condizioni più precarie e insicure. E' l'effetto paradossale di un norma fortemente voluta da alcune femministe e che doveva in realtà aiutare le donne. “Con un approccio moralizzatore non funzionerà mai” ribatte ancora Jacobsson, fiera del suo lavoro. “Quando dico che non mi sento una vittima mi rispondono che sono soggiogata oppure che rappresento solo una piccola minoranza”.
Il mercato del sesso intanto ha cambiato sede. Si compra e si vende soprattutto su Internet o al telefono. E' la prostituzione 2.0, come scrive nel suo rapporto Östergren, che tra l'altro coinvolge ragazze sempre più giovani. Per i clienti più timorosi è sufficiente andare nel vicino porto danese Frederikshavn per frequentare delle case chiuse, oppure prenotare online alcuni “viaggi organizzati” dalla Svezia verso i paesi Baltici. “Non si può affrontare un problema complesso come la prostituzione con soluzione semplici” conclude Östergren che parla della differenza tra una signora svedese che decide a un certo punto della vita di fare l'escort e una minorenne nigeriana che è in mano alla criminalità organizzata.
E' questa complessità che fa capire rende difficile realizzare davvero l'obiettivo della legge votata nel 1999. Nell'ultimo decennio le multe sono state appena trecento e nessuno è mai finito in carcere. Un anno fa, il governo ha deciso di aumentare la pena da 6 mesi a 1 anno come ulteriore deterrente. Ma al di là delle critiche delle sex workers e di alcune intellettuali come Östergren, resta un largo consenso intorno al “Sexköplagen”. Dal 1999, nessun governo ha mai rimesso in discussione la legge, nonostante i cambi di maggioranza. Dieci anni fa, solo un terzo degli svedesi era favorevole alla normativa. Oggi, secondo i sondaggi, sono due terzi. Un cambio di mentalità e un successo rivendicato dalle autorità pubbliche, anche se ogni tanto suona qualche campanello di allarme. Nel 2010, il dirigente della polizia Göran Lindberg, tra i più convinti sostenitori della “Sexköplagen” è stato arrestato per molestie e stupro di una minorenne. E l'anno scorso, una radio svedese ha deciso per gioco di trasmettere un falso annuncio di servizi sessuali. Il centralino è stato intasato di chiamate.

martedì 4 settembre 2012

Social Love

Vorrei disdire il mio abbonamento”. Si può incominciare una storia d'amore mandando per sbaglio una burocratica email a uno sconosciuto come accade ad Emmi e Leo che si scambiano messaggi via via più espliciti, dalla curiosità intellettuale all'attrazione fisica, costruendo una relazione solo attraverso la tastiera del computer, senza vedersi né toccarsi mai, ritrovandosi infine intrappolati nei sentimenti più classici, desiderio, gelosia, dipendenza. “Nella concezione dell’amore che ho io, la parte più grande di tutti gli amori è platonica” racconta Daniel Glattauer che ha pubblicato uno dei più famosi romanzi epistolari ai tempi delle email, “Le ho mai raccontato del vento del Nord”, oltre un milione di copie vendute in Germania, tradotto in trentasette paesi e seguito poi da “La settima onda”. “Nel mondo virtuale i sentimenti passionali crescono con facilità, perché la fantasia fa uno scherzo alla realtà e perché l’immaginazione è sufficiente per generare un’intimità. E’ questo quello che ho voluto illustrare nel mio romanzo” spiega ancora lo scrittore austriaco, che sta per pubblicare con Feltrinelli il nuovo “Per sempre tuo”. L'intervista a Glattauer, 52 anni, giornalista prima di scoprirsi romanziere, si svolge per email, così come suggerito dal suo agente.
Considerato il suo successo, può essere un esercizio compromettente.
E' molto pericoloso, ci vuole coraggio. Per quanto mi riguarda, farò tutto il possibile per rimanere molto concreto e controllare i miei sentimenti”.
Parliamo d'amore.
Parliamo della vita. Non si vive senza amare. E senza la speranza dell’amore non si sopravvive. La cosa bella dell’amore è che anche i desideri, i ricordi e le fantasie suscitano sentimenti amorosi; l’amore è chiaramente anche il concetto più labile del mondo. Quello che mi riscalda il cuore o mi fa sorridere internamente: già questo è amore”.
Sms, posta elettronica, social network. Un'autonarrazione dei nostri sentimenti che prima non esisteva.
Come scrittore romantico sono naturalmente felice che i sentimenti amorosi abbiano trovato una loro strada nella rete virtuale. Per iscritto ci si può 'annusare' molto bene. Si ha il coraggio di esternare le emozioni che di persona non si riuscirebbero a esprimere. Le parole scritte non impegnano e vivono di desideri e fantasia. Chi scrive liberamente si costruisce il suo proprio mondo. E questo è il terreno fertile per l'amore. Chi scrive dell'amore all'amore sopravvive”.
Il linguaggio è una pelle. Io strofino il mio linguaggio contro l’altro. E ‘come se avessi le parole al posto delle dita delle mani”. Roland Barthes.
Il mio modo di vedere il linguaggio, qui e oggi, è decisamente più spassionato. La lingua è uno strumento. Alcuni lo usano molto bene, altri meno. A volte non serve. Altre volte non basta. Ma molto più importante è il comportamento che precede il linguaggio. Se il comportamento funziona, allora lo strumento del linguaggio si piega bene all’utilizzo che vogliamo farne”.
Sempre Barthes diceva: “Sono innnamorato? Sì, finché sto aspettando”. E' impaziente?
Per me è tutto diverso. Il ritmo delle mie storie amorose è molto lento. O, più concretamente: io sto da 27 anni con la stessa donna. E i nostri ritmi sono stati sempre buoni ritmi. Che negli anni di gioventù si tenda ad avere storie più brevi – i cosiddetti one-night-stands – è normale, ed è sempre stato così anche ai miei tempi. Quando internet non esisteva”.
Provi a immaginare Emma Bovary o Anna Karenina ai tempi delle email. Impossibile?
La letteratura, come tutte le arti, è un ottimo termometro per misurare le caratteristiche di ogni epoca. Osservando la storia, possiamo dire che da sempre fasi di accelerazione si sono alternate a fasi di rallentamento. I nostri sono senza dubbio tempi veloci. Ma in psicologia e in psicoterapia sempre di più abbiamo a che fare con il 'burn out' e con altri fenomeni derivanti da una società ultrarapida e da queste discipline sta nascendo l’esigenza di rallentare il ritmo. Chissà che presto anche i giovani non ritrovino la voglia di prendere in mano romanzi come Anna Karenina o Madame Bovary”.
Quando scatta la voglia di passare oltre allo schermo?
I sentimenti premono per essere vissuti. Più forti sono i sentimenti, più forte sarà l’impulso a viverli nella vita reale. Ma cresce anche la paura di perdere l’illusione del “tutto”. Nel caso di Leo e Emmi il gioco dei sentimenti – il funambolismo vertiginoso sulle cime virtuali – ha riempito esattamente il tempo di due libri”.
Come definisce la fedeltà amorosa?
Non credo che fedeltà, infedeltà e tradimento debbano essere ridefiniti, proprio perché queste domande si pongono anche nel caso di una relazione virtuale. E’ la vecchia domanda su cosa sia il tradimento. E’ solo l’atto, o basta il pensiero? Il mio concetto del tradimento è molto semplice: essere fedeli vuol dire essere fedeli a se stessi. Tutto il resto sono regole del gioco interne alla coppia”.
Una email è più o meno innocente di un bacio?
Per me i baci e le belle parole romantiche appartengono alla stessa affascinante arte. Ho anche fatto dire al mio personaggio Leo: 'Scrivere è come baciare, ma senza labbra. Scrivere è baciare con la testa'. La colpa e l’innocenza sono per me concetti che non hanno nulla a che fare con l’amore. Quando si ama una persona si desidera tutto il bene per questa persona e si fa di tutto per assicurarglielo”.
Non le dispiace essere considerato solo un autore di “romance”?
Mi piace scrivere dei “grandi sentimenti”. Non sono uno scrittore intellettuale. Voglio percepire me stesso attraverso la scrittura. E voglio che i miei lettori e le mie lettrici si auto-percepiscano. Analogamente io come scrittore “percepisco” tutti i miei lettori”.
Esiste una tradizione di sottile ironia e sperimentazione linguistica tra gli scrittori austriaci, da Musil a Wittgenstein. Si è ispirato a qualcuno di loro?
La mia scrittura è istintiva e non studiata. Non ho romanzi di riferimento in testa e mentre scrivo non penso consapevolmente ad altra letteratura. Non mi ero mai chiesto se fossi un erede di Musil o di Wittgenstein. Mi sembrerebbe sinceramente un po’ pretenzioso pensarlo. Trovavo anche molto divertente che alcuni critici accostassero i miei romanzi per e-mail ai 'Dolori del giovane Werther'. Non ho pensato mezzo secondo a Goethe. Spero che mi venga perdonato”.
Quanto è possibile sublimare attraverso la scrittura?
Io credo che anche con le parole si possa piangere, abbracciare e gridare. Ho permesso a Leo e Emmi di fare tutto ciò, fin troppo. Tra l’altro ci sono state una settantina di trasposizioni teatrali dei miei romanzi, e sul palcoscenico ho visto spesso Leo e Emmi piangere e gridare con grande gestualità”.
In una relazione, ha più coraggio l'uomo o la donna?
Per me non c’è differenza fra uomo e donna. Vigliacco è chi se ne va. Coraggioso è chi resta. E’ da vigliacchi vivere le relazioni come consumazioni e levarsi di torno una volta saziati. E’ da coraggiosi restare, non spaventarsi di fronte agli ostacoli, prendre consapevolezza delle zone d’ombra di una relazione, tenere il Grande Tutto davanti agli occhi, la responsabilità delle nostre azioni, dei nostri sentimenti e della relazione in sé”.

lunedì 3 settembre 2012

Anne alla conquista di Parigi

PARIGI - Il suo ultimo libro s'intitola “Lavorare sull'orlo della crisi di nervi”. Eppure Anne Hidalgo non è una donna che perde facilmente la calma, neanche quando deve combattere il venticello della calunnia. Questa ex ispettrice del lavoro, che si è occupata di mobbing e sicurezza sui cantieri, è una delle donne più potenti della capitale. La migliore, aggiunge Bertrand Delanoë che vorrebbe lasciare al suo vicesindaco le chiavi della città prima di andarsene nel 2014. Sembra un appuntamento lontano e invece i giochi politici sono già incominciati. Parigi non è solo la capitale ma il pianeta intorno a cui continua a girare l'intera società francese, a dispetto degli sforzi per decentralizzare lo Stato. Ecco perché Hidalgo annuncerà già questa settimana la sua candidatura, con quasi due anni di anticipo. Un modo per bruciare le chances di altri possibili nomi dentro al partito socialista e di organizzare subito una continuità all'Hotel de Ville, strappato oltre dieci anni fa all'egemonia della destra.
La bella Anne, 53 anni, sembra invicibile secondo i sondaggi. Caschetto moro, frangia a incorniciare gli occhi scuri, è definita dai suoi collaboratori una dama di ferro. Una zarina, dicono i nemici. Forte del suo passato di militanza nel sindacato, è capace di andare allo scontro frontale senza paure, che sia per difendere il contestato progetto di ricostruzione delle Halles, oppure per salvare il suo onore. Qualche settimana fa, ha dato incarico al suo avvocato di diffidare Twitter. Alcuni utilizzatori anonimi avevano scritto di un suo presunto figlio illegittimo avuto con François Hollande. Hidalgo non è riuscita a far rimuovere le illazioni, e ha invece ottenuto che si diffondessero ancora di più, con un meccanismo perverso ben oliato.
Sono i primi colpi bassi in una battaglia per la conquista della Ville Lumière che si farà sempre più dura nei prossimi mesi. Membro del partito socialista dal 1994, Hidalgo ha iniziato la sua scalata al potere con Martine Aubry, di cui ha sposato il capo di gabinetto, Jean-Marc Germain. Fedelissima dell'attuale Segretaria del Ps, ne è stata anche portavoce durante le primarie (perse) contro Hollande. Ma il suo vero pigmalione è stato Delanoë, che l'ha chiamata con sé, dopo essere stato eletto sindaco di Parigi nel 2001. Lui l'ha nominata a capo della Banca del Tempo e poi vicesindaco con delega all'urbanistica. Un polo di interessi, soldi e potere. Hidalgo cura importanti cantieri, come il Grand Paris, o la riqualificazione dei quartieri popolari nel nord della capitale.
Madre di tre figli, è un femminista convinta, ma a modo suo. Si è battuta per i centri che danno assistenza contro la violenza domestica, poi però è stata una delle più acerrime nemiche della candidatura all'Eliseo di Ségolène Royal. “Non si può strumentalizzare il fatto di essere donna” disse nel 2007. La militanza socialista nasce da lontano. Aveva due anni, quando i suoi genitori lasciarano l'Andalusia per fuggire dal franchismo. Della terra natale ha mantenuto un temperamento fiero, la predilezione per i vestiti neri, e un attaccamento alla storia democratica della Spagna. Ha fatto apporre una lapide a Parigi per ricordare i repubblicani rifiugiati nella capitale durante la dittatura, e re Juan Carlos l'ha insignita del titolo di commendatore.
Secondo una ricerca pubblicata ieri dal Journal du Dimanche, se si votasse oggi Hidalgo vincerebbe con il 54% delle preferenze, di fronte all'ex premier François Fillon, ipotetico candidato dell'Ump. Il partito della destra non si è ancora ripreso dalla sconfitta di Nicolas Sarkozy e ha parecchi problemi da risolvere al suo interno prima di affrontare la sfida nella capitale. Dopo due mandati, Delanoë ha conservato gran parte della sua popolarità. Primo politico francese a fare outing, il sindaco di Parigi ha svecchiato l'immagine della città con alcuni concetti poi esportati nel mondo come le “notti bianche” e “Velib”, i distributori di biciclette. Il turismo è in costante aumento, nonostante la crisi. “Sindaco di Parigi? E' il sogno di una vita” ha confessato Hidalgo qualche mese fa. La corsa è ancora lunga e disseminata di ostacoli, ma lei non è una donna che non si lascia sfuggire un sogno.

sabato 1 settembre 2012

La sindrome olandese

AMSTERDAM - Sul volto della statua c'è un sorriso che sembra una smorfia. “Siamo assistendo a uno scontro di civiltà, non solo tra Stati ma tra individui”. Dieci anni fa, il 6 maggio 2002, Pim Fortuyn veniva ucciso da un fanatico animalista. L'intellettuale ecclettico, omosessuale brillante, era diventato famoso per le invettive contro l'Islam e la volontà di chiudere all'immigrazione. Se quella statua potesse parlare, oggi forse avrebbe sostituito l'Islam con l'euro, l'immigrazione con lo spread. E' quel che ha fatto Geert Wilders, il nazionalista dai capelli blondo platino, già condannato per il suo film “Fitna” in cui paragonava il Corano al Mein Kampf, oggi in prima fila per il ritorno al gulden, il fiorino olandese. Ed è quel che ha reso Emile Roemer, un ex maoista soprannominato “teddy bear”, l'orsacchiotto, per la sua morbida stazza e l'aria bonaria, più da oste simpatico che da rivoluzionario duro e puro, il favorito di un appuntamento elettorale che potrebbe sconvolgere gli equilibri europei.
L'Olanda ha paura, ma non più, non solo, dello scontro di civiltà. Adesso bastano i cartelli “vendesi” che si vedono ovunque, appena usciti dalle grandi città, simbolo di una bolla immobiliare pronta ad esplodere. Fa paura la disoccupazione salita al 6,5%, tasso che farebbe sognare i “garlic countries”, i paesi del sud Europa che puzzano di aglio, come li chiama Wilders, ma che qui invece è considerato una calamità. Diventa intollerabile il pensiero di decurtare, come chiedono i piani di riduzione dei deficit imposti da Bruxelles, il glorioso Welfare State, pilastro sul quale è costruita la fragile terra dei polder.
Adesso che la gente sente la pancia meno piena, le divisioni sull'immigrazione sembrano un lusso” ironizza Paul Jansen, uno dei principali editorialisti di De Telegraaf, il quotidiano della destra liberale che ha governato il paese negli ultimi due anni. Sia il Pvv di Wilders, che il Partito socialista guidato da Roemer, fanno una campagna basata sull'euroscetticismo. E' un netto cambio di priorità per il paese che ha attraversato un decennio di traumi e polemiche su multiculturalità e tolleranza, dall'uccisione di Fortuyn a quella del regista Theo Van Gogh, nel 2004, per mano di un estremista islamico. Qualcosa rimane, come dimostra il riflesso condizionato scattato mercoledì, quando un errore di comunicazione tra piloti e torre di controllo su un volo in arrivo a Schipol ha fatto vivere al Paese una mezz'ora di ansia per la possibile minaccia terroristica.
Ma quelli sono timori ormai ancestrali, conficcati nell'immaginario collettivo. La paura quotidiana, quella che affiora ovunque, si annida nei portafogli. Il governo del liberale Mark Rutte, alleato con i cristiano democratici, è stato costretto alle dimissioni dopo la bocciatura del suo programma di austerity da parte di Wilders che garantiva un appoggio esterno in parlamento. “Voleva fare un referendum sull'Europa. Ci è riuscito” dice Jansen che prevede un lungo periodo di turbolenza per l'Olanda. Subito dopo la caduta del governo, nell'aprile scorso, lo spread olandese è raddoppiato. Per tornare alla normalità solo quando Rutte è riuscito ad approvare, con il voto dell'opposizione, la Finanziaria 2013 che fissa sotto al 3% il rapporto deficit/Pil. Una misura indispensabile per rispettare i parametri europei e mantenere la fatidica tripla A, sulla quale però pesa l'esito elettorale.
L'Europa non entra nella palazzina dornata di gerani in Lauriestraat, al quartiere Jordaan. E' la sede del comitato elettorale del Ps, affollata di militanti che preperano gli ultimi volantini. La riduzione del deficit? “Preferiamo le persone alle stupide regole di Bruxelles” risponde Herman, 67 anni, sindacalista e iscritto al partito dall'anno di fondazione, 1972. La minaccia dei mercati? “Un ricatto al quale non si deve cedere”. Il partito socialista ha come simbolo un grosso pomodoro rosso con all'interno una stella che ricorda il passato maoista dei suoi fondatori. E' sempre rimasto ai margini, non ha mai avuto ministri. Solo grazie a Roemer, cinquantenne maestro di scuola, c'è stata la svolta di lotta e di governo. Secondo i sondaggi, potrebbe ottenere almeno 30 seggi, raddoppiando quelli delle ultime elezioni. Anche se negli ultimi giorni, i consensi stanno scendendo a favore del Vvd, Roemer e la sua protesta autarchica saranno al centro delle trattative per il nuovo governo. Nel programma elettorale promette più tasse per i ricchi e investimenti per sostenere la crescita. Sostiene che le misure di austerità promosse dalla Germania negli altri paesi europei non hanno dato risultati. Chiede un referendum sul fiscal compact, che l'Olanda non ha ancora approvato.
Per una strana coincidenza si vota il 12 settembre nello stesso giorno in cui la Corte costituzionale tedesca dovrà dare il suo responso sul nuovo trattato europeo. Come già nel 2005, quando ci fu il “no” al referendum sulla Costituzione europea subito dopo quello della Francia, l'Olanda rischia di essere sabbia nell'ingranaggio. Finora il governo dell'Aja è stato uno dei più fedeli alleati di Berlino. “Non vogliamo fare il lavoro sporco per Merkel” racconta Dennis De Jong, responsabile per le relazioni internazionali del Ps, che pensa a “nuove amicizie” in Europa, guardando verso alla Francia, che neanche a farlo apposta ha un presidente socialista che si chiama Hollande.
All'estremo opposto, Wilders parla poco di Islam e molto di euro, di Schengen, dei panfili dei greci che non sono tassati, della capitalizzazione del fondo salva-Stati. “La loro Bruxelles, la nostra Olanda”, è il suo slogan. Ha commissionato un fantomatico rapporto per dimostrare quanto il paese potrebbe guadagnare con il ritorno alla moneta nazionale. Contro la libera circolazione delle persone in Europa, Wilders si è inventato un controverso sito nel quale gli olandesi possono denunciare lo “scippo” di un impiego da parte di un lavoratore polacco o romeno.
Sembra folclore, così come le dichiarazioni del piccolo partito cristiano integralista, in lizza per le elezioni, che ha applaudito il discorso sullo “stupro legittimo” del repubblicano Todd Akin. Nelle strade di Amsterdam, mentre qualche ragazzo brillo si tuffa nei canali sotto al sole estivo, la campagna elettorale è all'insegna della sobrietà. Non ci sono manifesti sui muri. Per queste elezioni il comune ha vietato le affissioni. I partiti si devono accontentare di un cartellone unico in cui stipare i volti dei vari leader come figurine: grazie al sistema proporzionale, almeno venti partiti sono in corsa, e una decina potrà entrare in parlamento. E' il motivo per cui le lunghe trattative, prima e dopo il voto, sono una tradizione consolidata.
Dal giorno delle elezioni del 2010, Rutte dovette aspettare quattro mesi per essere finalmente nominato premier. Questa volta potrebbe essere ancora peggio. Molti temono che per Natale non ci sarà ancora un esecutivo. “Roemer può vincere ma rimanere all'opposizione” prevede Jansen, il notista politico di De Telegraaf. Se vogliono governare, i socialisti dovranno comunque sottostare al gioco delle alleanze e smussare i loro proclami antieuropeisti. Il partito laburista, in ripresa nelle ultime settimane, è molto meno critico con Bruxelles. Nessuno si sente di escludere che possa toccare di nuovo a Rutte. Il primo ministro è in risalita nei sondaggi e ha fatto un po' di autocritica sulla lealtà assoluta ai tedeschi.
L'Olanda è stata spesso un laboratorio di tendenze, dal calcio totale di Cruijff e Nenskens, al reality show inventato da Endemol. Molte società di moda mandano i “trend watchers” nelle strade di Amsterdam e Rotterdam per vedere come le ragazze combinano e reinventano i generi. Forse non è un caso che nel 1992 sia stato firmato qui, a Maastricht, il trattato che ha lanciato l'unione monetaria. Ora l'alleanza dei populismi di destra e di sinistra prende quella data simbolica come fonte di ogni male. Solo il 58% degli olandesi è favorevole a una maggiore integrazione nell'Ue, contro il 76% di appena due anni fa. Anche se sono agli antipodi, Wilders e Roemer si contendono lo stesso elettorato. Sono entrambi partiti plebiscitati dai “blue collar”, il nuovo proletariato che teme di perdere il lavoro di una vita. Secondo lo storico Geert Mak, autore del viaggio “In Europa” che fu un bestseller in Olanda, il paese sta attaversando una lunga crisi di identità simile a quella che conobbe nel 1672 quando dovette affrontare l'invasione di francesi e inglesi. Fu la fine dell'Età dell'Oro e l'inizio di una lenta presa di coscienza. Il piccolo paese capì allora che non poteva più rimanere fuori dal mondo. Oggi Amsterdam, con l'alta velocità, è a sole due ore di treno da Bruxelles. Ma il mito e la speranza dell'isola felice sopravvivono ancora.

mercoledì 29 agosto 2012

Il paese dei numeri primi

PARIGI - Con la camicia all'antica, la giacca lunga e, sul bavero, una spilla a forma di ragno, Cédric Villani, sembra più un dandy che non un insigne matematico. Appare in tutta la sua eccentrica eleganza sulle copertine di molte riviste, ospite di programmi televisivi per presentare il suo “Théorème vivant”, diario semiserio ai vertici della comunità scientifica internazionale. “La matematica? Come un piacere sessuale” scherza Villani, 39 anni, diventato famoso dopo aver vinto nel 2010 la medaglia Fields, l'equivalente del Nobel, per i suoi lunghi studi sulla formula dell'entropia Boltzmann. Nella storia di questo premio inventato nel 1936, gli studiosi francesi hanno conquistato il venti per cento delle medaglie, al secondo posto dopo gli americani. Qualche giorno fa, un altro importante riconoscimento internazionale, il Prix Henri Poincaré, è stato assegnato per la prima volta a due donne, Sylvia Serfaty e Nalini Anantharaman, entrambi ricercatrici al Cnrs, il centro nazionale di ricerca. Negli ultimi mesi, ha calcolato con orgoglio sciovinista Le Monde, i francesi si sono accaparrati cinque dei dodici premi della società europea di matematica per i ricercatori di meno di 35 anni.
La Francia è il paese dei numeri primi. I libri ludici intorno ai misteri dell'algebra o alla geometria diventano bestseller. Nelle edicole si vendono diverse riviste di esercizi per tenersi in allenamento. E' il paese che ha inventato il campionato mondiale di logica e matematica che si è disputato qualche giorno fa nel palazzo parigino dell'Unesco. La matematica piace tanto che Fondazione Cartier ha persino allestito una mostra dedicata all'estetica che si cela dietro a formule, teoremi, equazioni. Lo scienziato pazzo e scorbutico? E' un cliché superato. Personaggi come Cédric Villani o Stella Baruk, autrice di manuali alternativi per insegnare ai bambini, sono delle “mathstar”, un po' come nell'architettura esistono le “archistar”.
Nonostante la concorrenza dei paesi emergenti e il saldo primato statunitense, a Parigi lavorano in pianta stabile oltre mille ricercatori di questa disciplina. “E' la più alta concentrazione in una sola città, neanche gli americani ci battono” racconta soddisfatto Jean-Yves Chemin, direttore della fondazione di scienze matematiche di Parigi che riunisce i migliori centri di ricerca e università della capitale. Il segreto di questo record è presto svelato. Per scoprirlo basta andare nel quinto arrondissement, in rue d'Ulm, sede dell'Ecole Normale Supérieure, fondata nel 1794 da Napoleone, affiliata all'epoca con la Normale di Pisa. L'istituto, che tutti chiamano semplicemente "Normale Sup", ha il record mondiale di studenti con medaglie Fields. La sua particolarità è riunire insegnamenti letterari e scientifici. Qui ha studiato il biologo Louis Pasteur ma anche i filosofi Jean-Paul Sartre e Michel Foucault. "Normale Sup" ha anche sfornato cinque premi Nobel per la Fisica. 
Un livello di eccellenza mantenuto fino ad oggi. L'Ens che ha aperto altre due sedi a Lione e Cachan, è uno dei pochi atenei francesi che trova posto nella classifica internazionale di Shangai sulle migliori università. Un sistema che si basa sull'alta selezione dei futuri cervelloni già nei licei scientifici, poi nelle “classes préparatoires”, almeno due anni di preparazione per accedere al concorso d'ingresso all'Ens. “L'altro punto di fondamentale - continua Chemin - è il finanziamento dei giovani ricercatori”. Il “brain drain” è molto ridotto, meno del 3% degli studenti che si sono specializzati in Francia sono costretti a valicare il confine per trovare un posto di lavoro. Al contrario, molti matematici transalpini arrivano dall'estero. Il vietnamita Ngo Bao Chau, che ha vinto il premio Fields nel 2010, ha studiato in Francia. All'Institut des Hautes Etudes Scientifiques, tre dei cinque insegnanti titolari di cattedra sono di origine straniera. I campi di ricerca si sono anche molto modernizzati, dalla nanomedicina alle previsioni meteo, dagli algoritmi per l'alta finanza fino ai navigatori satellitari. Non è un caso insomma che il presidente François Hollande si sia vantato degli ultimi riconoscimenti internazionali ottenuti.
Una tradizione che risale idealmente al secolo dei Lumières con personaggi appassionati di matematica come Jean D'Alembert, Gaspard Monge, Joseph Fourrier. C'è stato anche il gruppo Bourbaki che a partire dal 1935 ha rivoluzionato il modo di scrivere la matematica e al quale hanno partecipatori cinque ricercatori premiati con le medaglie Fields. Quest'anno ricorre il centenario di Henri Poincaré, matematico ma anche fisico, ingegnere, filosofo. “Incarna una rara sintesi tra i vari rami della disciplina, è stato uno degli ultimi matematici universali” racconta Cédric Villani, direttore dell'istituto dedicato all'insigne scienziato morto nel 1912 e che diede un contributo all'elaborazione della teoria della relatività. Guardato con sospetto dai colleghi più seriosi, Villani è convinto che il posto del matematico sia dentro alla società. “Dobbiamo svecchiare la nostra immagine”.
Uno spirito divulgativo che si ritrova anche nei libri di Jean-Paul Delahaye, autore di volumi come “Stupefacenti numeri primi”, “Affascinati Pi greco”. Stella Baruk è chiamata invece la “fata della matematica”. La scienziata di origine iraniana ha inventato una nuova tecnica di insegnamento del calcolo fondata sull'uso del linguaggio. Baruk fa spesso l'esempio di un problema proposto in classe. “Ci sono 3 file, ognuna con 7 tavoli. Quanti anni ha la maestra?”. Molti bambini rispondono 28, senza neanche pensare al senso della frase. Il “metodo Baruk”, che prevede anche la valorizzaizone dell'errore come strumento conoscitivo, è stato applicato in molte scuole di banlieue, con sorprendenti risultati. Lo scrittore Daniel Pennac, anche lui insegnante, lo ha spesso consigliato agli alunni in difficoltà.
Le polemiche sulla didattica da usare risorgono continuamente. La Francia ha più volte rivoluzionato il metodo di insegnamento della matematica. Nel record delle medaglie Fields, delle “mathstar” e di tutta questa curiosità per i misteri della matematica, si nasconde infatti un paradosso. Il livello medio degli alunni francesi è in progressivo calo e le ore insegnate sono diminuite negli ultimi quindici anni. “Purtroppo la natura elitista del nostro sistema non ricade sulla maggioranza” ha notato Le Monde in un editoriale. Qualche anno fa è stata lanciata la petizione “Sauvons les maths!”, salviamo la matematica, proprio perché nei nuovi programmi c'era stata un'ulteriore decurtazione della materia. Un problema che non hanno avuto le migliaia di appassionati che si ritrovano nei giorni scorsi a Parigi per il campionati internazionali di giochi matematici. La competizione, rivolta a studenti ma anche ad adulti, è stata inventata proprio dai francesi venticinque anni fa.

martedì 21 agosto 2012

Astrid Lindgren, la mamma di Pippi Calzelunghe

STOCCOLMA - La macchina da scrivere, le foto di figli e nipoti, i blocchi per gli appunti, la vista sugli alberi di Vasapark. Non aveva bisogno d'altro Astrid Lindgren, chiusa dentro al suo studio, per immaginare un'eroina rivoluzionaria al comando della propria vita senza dover essere una principessa, sposarsi, imparare le buone maniere. In Dalagatan 46 tutto è rimasto come dieci anni fa, quando la più famosa autrice svedese, 145 milioni di libri venduti nel mondo, tradotta in 60 lingue anche se non ha mai vinto il Nobel, se n'è andata con un sorriso, partendo per l'ennesima avventura. E' in questa casa di cinque stanze che Lindgren è morta all'età di novantaquattro anni. “Vorrei la pace sulla Terra e qualche bel vestito” aveva risposto a chi le chiedeva cosa desiderasse per il compleanno. Fino alla cattedrale di Gamla Stan, l'8 marzo 2002, festa della donna, sfilarono il governo, la famiglia reale riunita e centomila persone. Il corteo funebre di una Regina dei cuori cresciuta in una fattoria dello Småland, tra i laghi e i boschi di betulla. Una semplice segretaria dattilografa che ha incontrato il successo per caso, ormai quarantenne.
“Raccontami una storia”. Era il 1943, Karin aveva sette anni ed era al letto con la febbre. Le venne in mente un nome. Pippi Långstrump. “Anzi, mamma, raccontami di Pippi Calzelunghe”. E' così che Lindgren cominciò a narrare, ogni sera, le gesta di una bambina talmente forte da sollevare un cavallo, sconfiggere maciste, vivere da sola con un mucchio di monete d'oro e una scimietta per amico, ignorando l'obbligo della scuola, gli ordini dei poliziotti, l'autorità in generale. “Ho trovato solo il nome, il resto è venuto tutto dalla sua fantasia” ricorda oggi Karin, che si occupa dell'omonima fondazione dedicata alla madre. Un patrimonio immenso. Oltre quaranta libri, molti racconti e storie brevi, ma anche testi teatrali, canzoni, decine di film e serie televisive, quasi tutte con il regista Olle Hellbom. Fu lui a scegliere nel 1969 l'attrice Karin Inger Nilsson, che ha incarnato il volto di Pippi, rendendola famosa nel mondo intero. Lindgren andava spesso sul set, nell'isola di Gotland, dov'è stata girata tutta la serie e fino all'ultimo minuto prima delle riprese, parlava con Hellbom per sistemare i dialoghi.
A Stoccolma, in Dalagatan 46 c'è ancora la cameretta di Karin e lo studio dove è stato finito il primo manoscritto di Pippi Calzelunghe, pubblicato nel 1945 dall'editore Rabén & Sjögren, dove Lindgren andò poi a lavorare curando tutta la collana per l'infanzia. Aveva cominciato da ragazza in un giornale di Vimmerby, la regione natale dove adesso si può visitare la vecchia casa di famiglia e un museo dedicato ai suoi personaggi, come quello che esiste a Stoccolma, sull'isola di Junibacken. Non avrebbe mai lasciato la campagna di Vimmerby se non fosse rimasta incinta a vent'anni di un uomo sposato e molto più anziano di lei. Uno scandalo per l'epoca. Lindgren fu costretta a partire per Copenhagen, dove lasciò il piccolo Lars in una casa-famiglia. Dopo tre anni, sposò Sture Lindgren, rappresentante dell'Automobile Club di Stoccolma. Nacque Karin e finalmente anche Lars tornò a vivere con la madre. Pippi che rifiuta di andare alla Casa degli Orfani è un riferimento a quella vicenda personale? “E' probabile - glissa la figlia - che quell'esperienza abbia influenzato i suoi libri”.

Appuntava pensieri e frasi a mano, la sera, su un blocco. Riprendeva molti dettagli intorno a sé. Pippi era fisicamente simile a un'amichetta di Karin. L'albero della limonata è una storia che si raccontava a proposito di un vecchio olmo della fattoria di Vimmerby, dove si giocava a “camminare senza toccare mai il pavimento”, come fanno Tommy e Annika a Villa Villacolle. I riferimenti alla sua casa natale, dov'era cresciuta libera nella natura con i fratelli, si ritrovano in altre opere, e in particolare in “Emil”, uno dei suoi libri preferiti. “Giocavamo come se non ci fosse domani” ripeteva spesso Lindgren. “Pippi le assomiglia molto” ammette Karin. “Era una donna anticonvenzionale e moto determinata”. Una protofemminista anche se, precisa la figlia, Lindgren non ha mai aderito ad alcun gruppo o associazione di donne.
Pippi Calzelunghe ha una carica sovversiva rimasta intatta. “E' incredibile, no? Dopo così tanto tempo” osserva ancora la figlia. “Non credo che mia madre avesse fatto un calcolo preciso, era semplicemente il suo modo di vedere il mondo”. Lindgren ha affrontato anche temi difficili, ad esempio il lutto o il suicidio in libri come “Mio piccolo Mio”, “I Fratelli Cuordileone”. Davanti alle critiche, ribatteva spesso: “I bambini sanno da soli cosa censurare quando leggono”. E a chi l'accusava di non dare il buon esempio, di essere una cattiva educatrice, rispondeva: “Diamo amore, molto amore e ancora amore. Il buon senso verrà da solo”.
Lindgren utilizzò la sua fama mondiale per alcune battaglie politiche. E' riuscita a far cadere un governo narrando una favola, Pomperipossa in Monismania”, nella quale denunciava un'aliquota pari al 102% del reddito. Era il 1977, il premier socialdemocratico fu costretto a dimettersi. Una legge per la protezione degli animali porta il nome Lex Lindgren, ma forse la sua vittoria più famosa è quella per bandire le punizioni corporali sui bambini. Lindgren iniziò la sua campagna contro le sculacciate in Germania, nel 1978. Invitata a ritirare un prestigioso premio, scatenò polemiche internazionali con un discorso che associava la violenza sui piccoli a quella della guerra. Un anno dopo la Svezia era il primo paese al mondo a varare una legge su questo tema, e ancora oggi la normativa è citata come esempio da seguire. “No Violence!” il testo inedito di quel discorso è stato pubblicato dalla fondazione Astrid Lindgren in occasione del decimo anniversario della morte della scrittrice. Chi è forte dev'essere anche buono, dice Pippi Calzelunghe. E, spesso, la forza non è dove si pensa che sia.