Anais Ginori (Roma, 1975). Giornalista, lavora a La Repubblica dal 1999

giovedì 29 novembre 2012

La bellezza vintage delle nonne

Mamma, voglio contare queste pieghette”. Il figlio cinquenne che chiede di giocare con le rughe sulla faccia della madre ha ragione: quanto sarebbe noioso guardare un volto che non racconta nulla su chi siamo, da dove veniamo. Una pagina bianca. Per ogni “pieghetta” c'è l'indizio di un sorriso, un dolore. Quasi un libro aperto, una mappatura in divenire nella nostra esistenza. E' quel che affascina seguendo la faccia accartocciata eppur magnifica di “Super Mamika”, la nonna del fotografo Sacha Goldeberg trasvestita da super-eroina dei fumetti. Sei anni fa, Goldberg ha incominciato questo progetto artistico con la sua “mamika” (nonna, in ungherese), 93 anni, riprendendola nelle situazioni più spericolate e assurde. Ne è venuto fuori un racconto visionario e originale, cliccatissimo sul web (“mamika” ha anche la sua pagina Myspace, un blog), e ora in mostra a Parigi nella galleria Sakura. Anche il fotografo Ari Seth Cohen si è messo a collezionare con il suo obiettivo alcune sofisticate signore di terza e quarta età nel suo blog (poi libro) “Advanced Style”. La bellezza vintage piace ed è una sana reazione al diktat giovanilista. Anche gli stilisti si adeguano. Nell'ultima pubblicità di Lanvin appare Jacqueline Murdoch, ex ballerina di 82 anni. A settembre, durante la fashion week di New York, ha sfilato una modella di 81 anni, Carmen Dell'Orefice. Il “granny style” è una miscela di raffinatezza e arte di vivere. Chi ama le nonne sa quant'antica sapienza spesso abbiano nel crearsi uno stile proprio, portando un gioiello o una sciarpa senza badare alla moda del momento. Un atteggiamento di superiorità: finalmente liberate dal dilemma tra rughe e botulino, le "mamika" possono buttarsi in nuove avventure. Una lezione di anticonformismo per le più giovani.

mercoledì 28 novembre 2012

A chi non piace la parola "femminismo"

La mia generazione non ha bisogno di essere femminista”. Sarebbe facile liquidare con ironia o fastidio l'intervista a Vogue di Carla Bruni Sarkozy (titolo: “Il grande ritorno”) soltanto perché a parlare è un'ereditiera piemontese, poi mannequin, cantante, première dame, amica della gauche caviar e sposa dell'ex presidente “bling bling”. Difatti nel testo precisa: "Non sono affatto militante femminista. Sono una borghese", immaginando un falso conflitto di classe.
Carla Bruni Sarkozy è una donna intelligente, sofisticata, anche se non abbastanza da accettare l'eleganza delle rughe sul suo volto. Bisogna riconoscere che ha ragione. Intanto, perché gran parte delle battaglie sono già state fatte da madri, nonne e bisonne. E poi perché molte donne la pensano come Carlà. Non a caso quei furbacchioni del magazine di moda usano nell'intervista la parola “femminismo” come una trappola, uno spauracchio. Femminista, io? Per carità. Più si scende con l'età e più l'etichetta suona retrograda, obsoleta, se non proprio repellente. Trovare una ventenne che osi dichiararsi femminista è un'impresa. Nell'immaginario collettivo è rimasto un ricordo di streghe ammazzamaschi, e non il coraggio e la generosità di chi ha conquistato per tutte - spesso pagando un prezzo personale - libertà e diritti impensabili fino a qualche generazione fa.
Che sia troppo presto per gridare vittoria e passare ad altro è purtroppo chiaro. Si è appena celebrata la giornata contro la violenza sulle donne che anziché diminuire aumenta come un imprevisto contraccolpo dell'emancipazione (il "backlash" teorizzato da Susan Faludi), e già questo basterebbe a provocare uno spirito di sorellanza. Le donne lavorano tre ore in più al giorno degli uomini (tra casa e ufficio), guadagnano un quinto in meno dei colleghi maschi, sono le prime licenziate in caso di ristrutturazione. La libertà femminile non è più una questione che si misura in centimetri di minigonna. E' qualcosa di più profondo, culturale. Rispetto a quarant'anni fa, serve un cambio di mentalità, non bastano più leggi e manifestazioni, e questo rende il compito ancor più difficile.
Dicono bene alcune militanti americane che hanno inventato lo slogan: "Non sono femminista, sono umanista". Difendere la parità tra i sessi dovrebbe essere preoccupazioni di tutti, donne e uomini: una conquista per la società intera. Eppure il viaggio della parola “femminismo”, con una percezione quasi opposta tra madri e figlie, racconta già molto del fenomeno di riflusso inziato negli anni Novanta. Qualcosa si è interrotto, quella storia non è stata sufficientemente insegnata, rivendicata. Sarebbe utile insegnare a parlare di "femminismi". Tante e diverse erano e sono tuttora le voci attraverso un secolo, talvolta anche in conflitto aperto, dalle suffragette ai gruppi queer. Per paradosso, pochi giovani studiano e conoscono l'immensa ricchezza e varietà di quel movimento che come disse Eric Hobsbawn è "l'unica vera rivoluzione sociale del Novecento". E pazienza se la parola è così poco glamour.