Anais Ginori (Roma, 1975). Giornalista, lavora a La Repubblica dal 1999

giovedì 25 ottobre 2012

Il tempo maschio. Intervista ad Anne Marie Slaughter

Anne Marie Slaughter si è cullata nella promessa di un certo femminismo, soprattutto americano, secondo il quale bisognava “have it all”, avere tutto: realizzare ambizioni famigliari e professionali. Poi un giorno, passati i cinquant'anni, ha deciso che non era più possibile. Il pentimento è arrivato dopo aver faticosamente raggiunto i suoi sogni. Madre di due figli, lavorava al Dipartimento di Stato, prima donna nominata Director of Policy Planning, tra le collaboratrici più in vista di Hillary Clinton. Orari massacranti, riunioni e trasferte continue, e il tormento di non essere mai davvero in pari con la vita. Qualcosa che manca sempre, in ufficio ma anche a casa. “Ho detto basta e non me ne pento” racconta ora Slaughter che oltre a essersi dimessa con fragore dal suo incarico governativo ha deciso di fare un suo personale outing dalle colonne dell'Atlantic Monthly.
Non è la sola. “Faccio politica per migliorare la vita degli altri, non per peggiorare la mia” ha detto Axelle Lemaire, trentenne deputata socialista che ha rifiutato di diventare ministro nel governo francese perché troppo indaffarata con i pargoli. E' come una controrivoluzione silenziosa, un movimento di donne in carriera che si arrendono, a metà corsa, schiantate da quelle che Slaughter chiama “tempo macho”: l'organizzazione del lavoro ancora basata sui ritmi maschili. “Credo che sia venuto il momento di essere sincere - spiega a Repubblica la professoressa di Princeton - e ammettere che, a certi livelli di responsabilità, la conciliazione tra professione e famiglia diventa impossibile”.
Una posizione iconoclasta, quasi una dichiarazione di resa, proprio mentre tante donne arrivano ai vertici politici e imprenditoriali. Il lungo articolo di Slaughter pubblicato a luglio, “Why women still can't have it all”, è stato uno dei pezzi più letti e commentati nella storia del magazine statunitense, ripreso in decine di paesi, con reazioni spesso critiche. “Mi aspettavo le critiche delle femministe della mia generazione sul fatto che sto dando un cattivo esempio oppure che propongo riforme irrealizzabili. Ma non avevo previsto che l'articolo sarebbe diventato 'virale', attraverso il web e altri giornali, scatenando una conversazione planetaria tra persone di ogni età”. Persino Hillary Clinton si è schierata qualche giorno fa contro il “piagnisteo” di certe working women, anche se poi ha precisato che non si riferiva a Slaughter.
“Il mio obiettivo - spiega l'autrice - era dare voce alle donne che scoprono, dopo aver avuto bambini, di non poter diventare amministratore delegato o direttore generale, di dover ritardare una promozione”. Una situazione colpevolizzante, che porta spesso a rinunciare alla proprie ambizioni. “E' un tema politico che dovrebbe indurci a cambiare il nostro sistema economico e sociale”. Slaughter è partita dalla sua esperienza, dalla difficoltà nell'accudire figli adolescenti mentre svolgeva un incarico pubblico prestigioso a Washington, per scrivere una sorta di manifesto. Da una parte, racconta, c'è una pressione sociale sulla maternità, con vecchi stereotipi, e dall'altra una cultura del lavoro pensata per uomini d'altri tempi.
Slaughter racconta di aver dubitato a lungo prima di scrivere le ragioni che l'hanno convinta a lasciare il Dipartimento di Stato. Poi, parlando davanti a un gruppo di studentesse, si è convinta che fosse venuto il momento di “dire la verità”. “Le giovani di oggi sono abbastanza coraggiose e intellettualmente preparate per sapere che non è tutto così facile”. I “role model” che scoraggiano le nuove leve, ribatte, sono altri. “Ad esempio, vedere donne che hanno scalato il potere accettando di pagare un prezzo personale. Molte ragazze, e ormai anche ragazzi, non vogliono più sacrificare la loro vita privata”. Proprio mentre usciva l'articolo sull'Atlantic Monthly, Marissa Mayer veniva nominata alla guida di Yahoo con il suo bel pancione. Un caso che non è rappresentativo, secondo Slaughter. “Negli Usa ci sono solo il 15% di dirigenti donne e tra le prime 1000 aziende della classifica di Fortune appena 35 società hanno una leadership femminile”.
Il “tempo macho”, spiega l'autrice, è una trappola insidiosa non solo per le donne. “Alcuni padri mi hanno contattato per dirmi che anche loro si sentono vittime” spiega Slaughter. “Dobbiamo insieme ripensare le aspettative fondamentali su dove, come e quando viene svolta l'attività lavorativa”. La professoressa di Princeton invita alla “creatività” per sviluppare strumenti di flessibilità, come il telelavoro, il coworking o il part-time. “Sia uomini che donne avrebbero tutto da guadagnare se si incominciasse a misurare la produttività sui risultati e non sulle ore in ufficio”. Oggi il picco di carriera coincide con il momento nel quale i figli sono ancora piccoli e i propri genitori cominciano a essere anziani. E' l'Exhausted Generation, la generazione esausta battezzata dall'Economist, schiacciata da doveri privati che non si possono rimandare. “Bisognerebbe immaginare percorsi professionali meno intensivi e più lunghi” propone Slaughter. “Anziché una parete verticale da scalare, la carriera deve diventare una serie di gradini, con soste e persino lievi cadute”.
Anche nella coppia bisogna dare prova di immaginazione. “Non esiste un unico modello. Alcuni genitori cercano di dividere le responsabilità equamente, bilanciando i compromessi, com'è capitato a me e mio marito. Altre coppie agevolano uno dei due genitori, magari perché guadagna di più, è più coinvolto, ha migliori opportunità di avanzamento. L'eguaglianza di genere significa che queste scelte devono essere libere e non condizionate da vincoli sociali o stereotipi”.
Avere o non avere tutto. Dopo la pubblicazione dell'articolo, Slaughter ha ricevuto molte critiche per l'uso di questa espressione assolutista. “Per la mia generazione - ricorda - era scontato che si potesse avere il meritato successo professionale senza dover rinunciare ai figli. Viste le reazioni al mio articolo mi sembra che l'ideale per cui tre generazioni di femministe si sono battute è ancora molto popolare”. La possibilità di rinunciare a un incarico di alto livello o di “dosare” l'impegno professionale è un lusso che molte donne non si possono permettere. “Certo - risponde Slaughter - so che i problemi di cui parlo appartengono a un'élite fortunata che può decidere come e quanto implicarsi nel lavoro. Ma io mi occupo di come agevolare la vita delle donne che aspirano ai vertici di aziende o incarichi governativi. Il cosiddetto 'soffitto di vetro' è qualcosa di molto più complesso di quel che sembra”.
Sono ormai tre mesi che Slaughter passa le sue giornate a rispondere a messaggi, è invitata a trasmissioni, e arringa le folle sulla “conciliazione impossibile” tra famiglia e professione. Nel frattempo, continua a insegnare a Princeton, pubblica articoli in riviste specializzate, partecipa a conferenze e dibattiti televisivi per parlare di Siria o di elezioni americane. Ma il suo lavoro accademico è passato quasi in secondo piano. Sta preparando un libro sulle donne che sarà pubblicato in Italia da Sperling&Kupfer. Polemica e felice di esserlo. “Non mi posso lamentare”.

mercoledì 10 ottobre 2012

Quando la rivoluzione è nuda

PARIGI «Spogliati e vinci» ripete Inna mentre fa la sua lezione. Undress and win. Lo slogan è efficace anche se si presta ad equivoci. Nel Lavoir moderne, teatro del diciottesimo arrondissement, non si svolge uno dei tanti corsi di burlesque. Qui si parla di gestione del conflitto in strada, resistenza passiva ai poliziotti, tecniche di autodifesa. C' è un programma che prevede ginnastica mattina e sera. Al centro del palco un grande pungiball contro il quale assestare i colpi e, accanto, un guardaroba con delle finte uniformi delle forze dell' ordine per simulare il "corpo a corpo", altra espressione ambigua. 
Niente è come sembra con Inna e le ragazze di Femen che hanno imparato a usare la propria nudità come un' arma pacifica. Il gruppo femminista nato a Kiev nel 2008, dopo le speranze tradite della rivoluzione arancione, ha organizzato decine di proteste in giro per il mondo, sempre con il gusto della provocazione. Hanno urlato a Vladimir Putin: «L' Ucraina non è Alina!», alludendo alla ginnasta, presunta amante del leader russo. Qualche mese fa un' attivista si è buttata addosso al patriarca della Chiesa Ortodossa, con scritto sul petto: «Kill Kirill!». Le militanti si sono denudate sotto la neve in Svizzera, al forum di Davos, dove il presidente Yanukovich aveva detto che «per amare l' Ucraina basta vedere le donne». La primavera scorsa hanno bussato a casa di Dominique StraussKahn, travestendosi da cameriere. Prima ancora, erano venute a spogliarsi a Roma, contro "l' utilizzatore finale", Silvio Berlusconi. Colorandosi la pelle a strisce verde, bianco, rosso, avevano cantato "Berlo Ciao". 
 Ogni perfomance dura pochi minuti. Il corpo è il medium e il messaggio. Un femminismo disinibito e pop che viene dall' Est, simile a quello punk delle Pussy Riot. «Ma noi siamo arrivate prima» rivendica Inna Shevchenko che comunque si trova a Parigi proprio a causa della solidarietà con le militanti russe. Il 17 agosto scorso, giorno del processo a Mosca contro la band, Inna ha tagliato con una motosega un gigantesco crocifisso nel centro di Kiev, denunciando la complicità della Chiesa ortodossa nella repressione. La polizia è venuta a cercare Inna all' alba per arrestarla con l' accusa di "atti vandalici". Lei ha fatto in tempo a scappare. Direzione Francia, dove alcune "sorelle" le avevano promesso un rifugio sicuro. Chissà cosa avrebbe pensato Simone de Beauvoir con le sue camicette accollate e lo chignon mai fuori posto dell' utilizzo politico del topless, lei che non considerava la femminilità come un destino naturale, obbligato. Da quando Femen ha aperto il centro di addestramento a Parigi decine di ragazze si sono già iscritte. Inna dice che sono nati gruppi anche in Olanda, in Gran Bretagna, persino in Brasile. 
Sembra paradossale che l' origine di questa tecnica di protesta sia stata inventata in Ucraina dove, secondo Inna, «il femminismo non è mai neppure arrivato». Femen non ha neanche appoggiato l' ex primo ministro e leader dell' opposizione Yulia Tymoshenko, ormai in carcere e per cui molti intellettuali si sono mobilitati. «Al di là dell' arresto, che ovviamente è sbagliato- spiega la leader di Femen - consideriamo Tymoshenko collusa con il sistema della mafia maschile al potere». Svestirsi non per essere guardate, ma per farsi ascoltare. Insieme a Inna, nella squadra parigina, ci sono Stephanie, Alexandra, Safia. Tutte ventenni, sexy, toste. «Ma dentro a Femen ci sono anche una ragazza obesa e una signora di 64 anni - precisa Inna - e non siamo per escludere gli uomini». C' è un fotografo quasi "ufficiale". Ci sono dei giovani che fanno i sopralluoghi per preparare i blitz. Ogni azione è pensata per avere il massimo risalto mediatico. La comunicazioneè studiata nei minimi dettagli. Non a caso Inna ha frequentato la scuola di giornalismo a Kiev e lavorava come ufficio stampa. Le perfomance di Femen si diffondono come un virus, tra stupore, imbarazzo e qualche ironia. «Molti dei nostri video - racconta Inna - sono censurati su YouTube e Facebook. Un' assurda ipocrisia, quando si sa quali sono i veri materiali pornografici che circolano su Internet». 
A pochi passi dal centro parigino di Femen, c' è la moschea de la rue Myrha. Il quartiere della Goutte d' Orè un crocicchio di culture e religioni. «Stare qui dimostra esattamente chi siamo: ragazze coraggiose che non si fanno condizionare da chi ci circonda». Il motivo del successo tra le ventenniè forse questo: proporre una miscela di coraggio virile ed erotismo femminile. Nel corso viene insegnato come filmare ogni azione, per poi diffonderla sul web. Inna fornisce alle militanti consigli come: «Togliersi la maglietta nel minor tempo possibile e girarsi subito a favore dei fotografi». Sul petto, viene sempre dipinta di nero qualche scritta. "Dio è donna". "Nudité, liberté". Le militanti più spiritose usano anche i colori, variando da un seno all' altro. Molte indossano una corona di fiori, simbolo in Ucraina di castità e purezza. «Con le nostre azioni - spiega Inna - cerchiamo di sovvertiree manipolare tutti i simboli del maschilismo».
È difficile trovare un filo conduttore nelle tante proteste di Femen. Sfogliando la galleria fotografica di questi ultimi quattro anni, che Inna ostenta con orgoglio, si trovano bersagli ovvi come Putin, Berlusconie Dsk ma anche la solidarietà con i giornalisti perseguitati in Georgia, l' iraniana condannata alla lapidazione Sakineh, i ragazzi di Occupy Wall Street, e persino la difesa degli animali maltrattati nello zoo di Kiev. L' unico vero tema ricorrente è il diritto all' autodeterminazione delle donne - il famoso "Io sono mia" - e la battaglia contro la prostituzione. "L'Ucraina non è un bordello"è stato lo slogan del gruppo durante le manifestazioni contro il turismo sessuale collegato agli europei di calcio. «Il destino delle donne nel nostro paese è segnato: ti puoi sposare, oppure prostituirti. In ogni caso sei schiava dell' uomo». In Francia, come altrove in Europa, la situazione è più sfumata, esistono associazioni di "sex workers" fiere del loro mestiere. «La prostituzione non è mai libera» ribatte Inna che sembra avere pochi dubbi, come quando dice: «Il vecchio femminismo, fatto di conferenze e cortei, non funziona più. Noi siamo il futuro». 
Il dubbio è che, alla lunga, anche l' effetto sorpresa svanisca. Molte organizzazioni di donne sostengono che le performance di Femen servano solo a confermare e rafforzare una visione maschile del mondo. «Accade l' esatto contrario - replica Inna - la nostra nudità disturba e spiazza gli uomini proprio perché non sono loro che decidono come e quando ci dobbiamo spogliare e cosa fare del nostro corpo». Un anno fa, Inna e altre tre ragazze di Femen sono venute in Italia. «Da voi - ricorda - ho partecipato a una trasmissione tv abbastanza maschilista. Ma non importa: per lanciare le nostre denunce siamo pronte ad andare ovunque. Potremmo persino accettare di fare la copertina di Playboy». Una coniglietta femminista? «Perché no?».