Anais Ginori (Roma, 1975). Giornalista, lavora a La Repubblica dal 1999

giovedì 29 novembre 2012

La bellezza vintage delle nonne

Mamma, voglio contare queste pieghette”. Il figlio cinquenne che chiede di giocare con le rughe sulla faccia della madre ha ragione: quanto sarebbe noioso guardare un volto che non racconta nulla su chi siamo, da dove veniamo. Una pagina bianca. Per ogni “pieghetta” c'è l'indizio di un sorriso, un dolore. Quasi un libro aperto, una mappatura in divenire nella nostra esistenza. E' quel che affascina seguendo la faccia accartocciata eppur magnifica di “Super Mamika”, la nonna del fotografo Sacha Goldeberg trasvestita da super-eroina dei fumetti. Sei anni fa, Goldberg ha incominciato questo progetto artistico con la sua “mamika” (nonna, in ungherese), 93 anni, riprendendola nelle situazioni più spericolate e assurde. Ne è venuto fuori un racconto visionario e originale, cliccatissimo sul web (“mamika” ha anche la sua pagina Myspace, un blog), e ora in mostra a Parigi nella galleria Sakura. Anche il fotografo Ari Seth Cohen si è messo a collezionare con il suo obiettivo alcune sofisticate signore di terza e quarta età nel suo blog (poi libro) “Advanced Style”. La bellezza vintage piace ed è una sana reazione al diktat giovanilista. Anche gli stilisti si adeguano. Nell'ultima pubblicità di Lanvin appare Jacqueline Murdoch, ex ballerina di 82 anni. A settembre, durante la fashion week di New York, ha sfilato una modella di 81 anni, Carmen Dell'Orefice. Il “granny style” è una miscela di raffinatezza e arte di vivere. Chi ama le nonne sa quant'antica sapienza spesso abbiano nel crearsi uno stile proprio, portando un gioiello o una sciarpa senza badare alla moda del momento. Un atteggiamento di superiorità: finalmente liberate dal dilemma tra rughe e botulino, le "mamika" possono buttarsi in nuove avventure. Una lezione di anticonformismo per le più giovani.

mercoledì 28 novembre 2012

A chi non piace la parola "femminismo"

La mia generazione non ha bisogno di essere femminista”. Sarebbe facile liquidare con ironia o fastidio l'intervista a Vogue di Carla Bruni Sarkozy (titolo: “Il grande ritorno”) soltanto perché a parlare è un'ereditiera piemontese, poi mannequin, cantante, première dame, amica della gauche caviar e sposa dell'ex presidente “bling bling”. Difatti nel testo precisa: "Non sono affatto militante femminista. Sono una borghese", immaginando un falso conflitto di classe.
Carla Bruni Sarkozy è una donna intelligente, sofisticata, anche se non abbastanza da accettare l'eleganza delle rughe sul suo volto. Bisogna riconoscere che ha ragione. Intanto, perché gran parte delle battaglie sono già state fatte da madri, nonne e bisonne. E poi perché molte donne la pensano come Carlà. Non a caso quei furbacchioni del magazine di moda usano nell'intervista la parola “femminismo” come una trappola, uno spauracchio. Femminista, io? Per carità. Più si scende con l'età e più l'etichetta suona retrograda, obsoleta, se non proprio repellente. Trovare una ventenne che osi dichiararsi femminista è un'impresa. Nell'immaginario collettivo è rimasto un ricordo di streghe ammazzamaschi, e non il coraggio e la generosità di chi ha conquistato per tutte - spesso pagando un prezzo personale - libertà e diritti impensabili fino a qualche generazione fa.
Che sia troppo presto per gridare vittoria e passare ad altro è purtroppo chiaro. Si è appena celebrata la giornata contro la violenza sulle donne che anziché diminuire aumenta come un imprevisto contraccolpo dell'emancipazione (il "backlash" teorizzato da Susan Faludi), e già questo basterebbe a provocare uno spirito di sorellanza. Le donne lavorano tre ore in più al giorno degli uomini (tra casa e ufficio), guadagnano un quinto in meno dei colleghi maschi, sono le prime licenziate in caso di ristrutturazione. La libertà femminile non è più una questione che si misura in centimetri di minigonna. E' qualcosa di più profondo, culturale. Rispetto a quarant'anni fa, serve un cambio di mentalità, non bastano più leggi e manifestazioni, e questo rende il compito ancor più difficile.
Dicono bene alcune militanti americane che hanno inventato lo slogan: "Non sono femminista, sono umanista". Difendere la parità tra i sessi dovrebbe essere preoccupazioni di tutti, donne e uomini: una conquista per la società intera. Eppure il viaggio della parola “femminismo”, con una percezione quasi opposta tra madri e figlie, racconta già molto del fenomeno di riflusso inziato negli anni Novanta. Qualcosa si è interrotto, quella storia non è stata sufficientemente insegnata, rivendicata. Sarebbe utile insegnare a parlare di "femminismi". Tante e diverse erano e sono tuttora le voci attraverso un secolo, talvolta anche in conflitto aperto, dalle suffragette ai gruppi queer. Per paradosso, pochi giovani studiano e conoscono l'immensa ricchezza e varietà di quel movimento che come disse Eric Hobsbawn è "l'unica vera rivoluzione sociale del Novecento". E pazienza se la parola è così poco glamour.

giovedì 25 ottobre 2012

Il tempo maschio. Intervista ad Anne Marie Slaughter

Anne Marie Slaughter si è cullata nella promessa di un certo femminismo, soprattutto americano, secondo il quale bisognava “have it all”, avere tutto: realizzare ambizioni famigliari e professionali. Poi un giorno, passati i cinquant'anni, ha deciso che non era più possibile. Il pentimento è arrivato dopo aver faticosamente raggiunto i suoi sogni. Madre di due figli, lavorava al Dipartimento di Stato, prima donna nominata Director of Policy Planning, tra le collaboratrici più in vista di Hillary Clinton. Orari massacranti, riunioni e trasferte continue, e il tormento di non essere mai davvero in pari con la vita. Qualcosa che manca sempre, in ufficio ma anche a casa. “Ho detto basta e non me ne pento” racconta ora Slaughter che oltre a essersi dimessa con fragore dal suo incarico governativo ha deciso di fare un suo personale outing dalle colonne dell'Atlantic Monthly.
Non è la sola. “Faccio politica per migliorare la vita degli altri, non per peggiorare la mia” ha detto Axelle Lemaire, trentenne deputata socialista che ha rifiutato di diventare ministro nel governo francese perché troppo indaffarata con i pargoli. E' come una controrivoluzione silenziosa, un movimento di donne in carriera che si arrendono, a metà corsa, schiantate da quelle che Slaughter chiama “tempo macho”: l'organizzazione del lavoro ancora basata sui ritmi maschili. “Credo che sia venuto il momento di essere sincere - spiega a Repubblica la professoressa di Princeton - e ammettere che, a certi livelli di responsabilità, la conciliazione tra professione e famiglia diventa impossibile”.
Una posizione iconoclasta, quasi una dichiarazione di resa, proprio mentre tante donne arrivano ai vertici politici e imprenditoriali. Il lungo articolo di Slaughter pubblicato a luglio, “Why women still can't have it all”, è stato uno dei pezzi più letti e commentati nella storia del magazine statunitense, ripreso in decine di paesi, con reazioni spesso critiche. “Mi aspettavo le critiche delle femministe della mia generazione sul fatto che sto dando un cattivo esempio oppure che propongo riforme irrealizzabili. Ma non avevo previsto che l'articolo sarebbe diventato 'virale', attraverso il web e altri giornali, scatenando una conversazione planetaria tra persone di ogni età”. Persino Hillary Clinton si è schierata qualche giorno fa contro il “piagnisteo” di certe working women, anche se poi ha precisato che non si riferiva a Slaughter.
“Il mio obiettivo - spiega l'autrice - era dare voce alle donne che scoprono, dopo aver avuto bambini, di non poter diventare amministratore delegato o direttore generale, di dover ritardare una promozione”. Una situazione colpevolizzante, che porta spesso a rinunciare alla proprie ambizioni. “E' un tema politico che dovrebbe indurci a cambiare il nostro sistema economico e sociale”. Slaughter è partita dalla sua esperienza, dalla difficoltà nell'accudire figli adolescenti mentre svolgeva un incarico pubblico prestigioso a Washington, per scrivere una sorta di manifesto. Da una parte, racconta, c'è una pressione sociale sulla maternità, con vecchi stereotipi, e dall'altra una cultura del lavoro pensata per uomini d'altri tempi.
Slaughter racconta di aver dubitato a lungo prima di scrivere le ragioni che l'hanno convinta a lasciare il Dipartimento di Stato. Poi, parlando davanti a un gruppo di studentesse, si è convinta che fosse venuto il momento di “dire la verità”. “Le giovani di oggi sono abbastanza coraggiose e intellettualmente preparate per sapere che non è tutto così facile”. I “role model” che scoraggiano le nuove leve, ribatte, sono altri. “Ad esempio, vedere donne che hanno scalato il potere accettando di pagare un prezzo personale. Molte ragazze, e ormai anche ragazzi, non vogliono più sacrificare la loro vita privata”. Proprio mentre usciva l'articolo sull'Atlantic Monthly, Marissa Mayer veniva nominata alla guida di Yahoo con il suo bel pancione. Un caso che non è rappresentativo, secondo Slaughter. “Negli Usa ci sono solo il 15% di dirigenti donne e tra le prime 1000 aziende della classifica di Fortune appena 35 società hanno una leadership femminile”.
Il “tempo macho”, spiega l'autrice, è una trappola insidiosa non solo per le donne. “Alcuni padri mi hanno contattato per dirmi che anche loro si sentono vittime” spiega Slaughter. “Dobbiamo insieme ripensare le aspettative fondamentali su dove, come e quando viene svolta l'attività lavorativa”. La professoressa di Princeton invita alla “creatività” per sviluppare strumenti di flessibilità, come il telelavoro, il coworking o il part-time. “Sia uomini che donne avrebbero tutto da guadagnare se si incominciasse a misurare la produttività sui risultati e non sulle ore in ufficio”. Oggi il picco di carriera coincide con il momento nel quale i figli sono ancora piccoli e i propri genitori cominciano a essere anziani. E' l'Exhausted Generation, la generazione esausta battezzata dall'Economist, schiacciata da doveri privati che non si possono rimandare. “Bisognerebbe immaginare percorsi professionali meno intensivi e più lunghi” propone Slaughter. “Anziché una parete verticale da scalare, la carriera deve diventare una serie di gradini, con soste e persino lievi cadute”.
Anche nella coppia bisogna dare prova di immaginazione. “Non esiste un unico modello. Alcuni genitori cercano di dividere le responsabilità equamente, bilanciando i compromessi, com'è capitato a me e mio marito. Altre coppie agevolano uno dei due genitori, magari perché guadagna di più, è più coinvolto, ha migliori opportunità di avanzamento. L'eguaglianza di genere significa che queste scelte devono essere libere e non condizionate da vincoli sociali o stereotipi”.
Avere o non avere tutto. Dopo la pubblicazione dell'articolo, Slaughter ha ricevuto molte critiche per l'uso di questa espressione assolutista. “Per la mia generazione - ricorda - era scontato che si potesse avere il meritato successo professionale senza dover rinunciare ai figli. Viste le reazioni al mio articolo mi sembra che l'ideale per cui tre generazioni di femministe si sono battute è ancora molto popolare”. La possibilità di rinunciare a un incarico di alto livello o di “dosare” l'impegno professionale è un lusso che molte donne non si possono permettere. “Certo - risponde Slaughter - so che i problemi di cui parlo appartengono a un'élite fortunata che può decidere come e quanto implicarsi nel lavoro. Ma io mi occupo di come agevolare la vita delle donne che aspirano ai vertici di aziende o incarichi governativi. Il cosiddetto 'soffitto di vetro' è qualcosa di molto più complesso di quel che sembra”.
Sono ormai tre mesi che Slaughter passa le sue giornate a rispondere a messaggi, è invitata a trasmissioni, e arringa le folle sulla “conciliazione impossibile” tra famiglia e professione. Nel frattempo, continua a insegnare a Princeton, pubblica articoli in riviste specializzate, partecipa a conferenze e dibattiti televisivi per parlare di Siria o di elezioni americane. Ma il suo lavoro accademico è passato quasi in secondo piano. Sta preparando un libro sulle donne che sarà pubblicato in Italia da Sperling&Kupfer. Polemica e felice di esserlo. “Non mi posso lamentare”.

mercoledì 10 ottobre 2012

Quando la rivoluzione è nuda

PARIGI «Spogliati e vinci» ripete Inna mentre fa la sua lezione. Undress and win. Lo slogan è efficace anche se si presta ad equivoci. Nel Lavoir moderne, teatro del diciottesimo arrondissement, non si svolge uno dei tanti corsi di burlesque. Qui si parla di gestione del conflitto in strada, resistenza passiva ai poliziotti, tecniche di autodifesa. C' è un programma che prevede ginnastica mattina e sera. Al centro del palco un grande pungiball contro il quale assestare i colpi e, accanto, un guardaroba con delle finte uniformi delle forze dell' ordine per simulare il "corpo a corpo", altra espressione ambigua. 
Niente è come sembra con Inna e le ragazze di Femen che hanno imparato a usare la propria nudità come un' arma pacifica. Il gruppo femminista nato a Kiev nel 2008, dopo le speranze tradite della rivoluzione arancione, ha organizzato decine di proteste in giro per il mondo, sempre con il gusto della provocazione. Hanno urlato a Vladimir Putin: «L' Ucraina non è Alina!», alludendo alla ginnasta, presunta amante del leader russo. Qualche mese fa un' attivista si è buttata addosso al patriarca della Chiesa Ortodossa, con scritto sul petto: «Kill Kirill!». Le militanti si sono denudate sotto la neve in Svizzera, al forum di Davos, dove il presidente Yanukovich aveva detto che «per amare l' Ucraina basta vedere le donne». La primavera scorsa hanno bussato a casa di Dominique StraussKahn, travestendosi da cameriere. Prima ancora, erano venute a spogliarsi a Roma, contro "l' utilizzatore finale", Silvio Berlusconi. Colorandosi la pelle a strisce verde, bianco, rosso, avevano cantato "Berlo Ciao". 
 Ogni perfomance dura pochi minuti. Il corpo è il medium e il messaggio. Un femminismo disinibito e pop che viene dall' Est, simile a quello punk delle Pussy Riot. «Ma noi siamo arrivate prima» rivendica Inna Shevchenko che comunque si trova a Parigi proprio a causa della solidarietà con le militanti russe. Il 17 agosto scorso, giorno del processo a Mosca contro la band, Inna ha tagliato con una motosega un gigantesco crocifisso nel centro di Kiev, denunciando la complicità della Chiesa ortodossa nella repressione. La polizia è venuta a cercare Inna all' alba per arrestarla con l' accusa di "atti vandalici". Lei ha fatto in tempo a scappare. Direzione Francia, dove alcune "sorelle" le avevano promesso un rifugio sicuro. Chissà cosa avrebbe pensato Simone de Beauvoir con le sue camicette accollate e lo chignon mai fuori posto dell' utilizzo politico del topless, lei che non considerava la femminilità come un destino naturale, obbligato. Da quando Femen ha aperto il centro di addestramento a Parigi decine di ragazze si sono già iscritte. Inna dice che sono nati gruppi anche in Olanda, in Gran Bretagna, persino in Brasile. 
Sembra paradossale che l' origine di questa tecnica di protesta sia stata inventata in Ucraina dove, secondo Inna, «il femminismo non è mai neppure arrivato». Femen non ha neanche appoggiato l' ex primo ministro e leader dell' opposizione Yulia Tymoshenko, ormai in carcere e per cui molti intellettuali si sono mobilitati. «Al di là dell' arresto, che ovviamente è sbagliato- spiega la leader di Femen - consideriamo Tymoshenko collusa con il sistema della mafia maschile al potere». Svestirsi non per essere guardate, ma per farsi ascoltare. Insieme a Inna, nella squadra parigina, ci sono Stephanie, Alexandra, Safia. Tutte ventenni, sexy, toste. «Ma dentro a Femen ci sono anche una ragazza obesa e una signora di 64 anni - precisa Inna - e non siamo per escludere gli uomini». C' è un fotografo quasi "ufficiale". Ci sono dei giovani che fanno i sopralluoghi per preparare i blitz. Ogni azione è pensata per avere il massimo risalto mediatico. La comunicazioneè studiata nei minimi dettagli. Non a caso Inna ha frequentato la scuola di giornalismo a Kiev e lavorava come ufficio stampa. Le perfomance di Femen si diffondono come un virus, tra stupore, imbarazzo e qualche ironia. «Molti dei nostri video - racconta Inna - sono censurati su YouTube e Facebook. Un' assurda ipocrisia, quando si sa quali sono i veri materiali pornografici che circolano su Internet». 
A pochi passi dal centro parigino di Femen, c' è la moschea de la rue Myrha. Il quartiere della Goutte d' Orè un crocicchio di culture e religioni. «Stare qui dimostra esattamente chi siamo: ragazze coraggiose che non si fanno condizionare da chi ci circonda». Il motivo del successo tra le ventenniè forse questo: proporre una miscela di coraggio virile ed erotismo femminile. Nel corso viene insegnato come filmare ogni azione, per poi diffonderla sul web. Inna fornisce alle militanti consigli come: «Togliersi la maglietta nel minor tempo possibile e girarsi subito a favore dei fotografi». Sul petto, viene sempre dipinta di nero qualche scritta. "Dio è donna". "Nudité, liberté". Le militanti più spiritose usano anche i colori, variando da un seno all' altro. Molte indossano una corona di fiori, simbolo in Ucraina di castità e purezza. «Con le nostre azioni - spiega Inna - cerchiamo di sovvertiree manipolare tutti i simboli del maschilismo».
È difficile trovare un filo conduttore nelle tante proteste di Femen. Sfogliando la galleria fotografica di questi ultimi quattro anni, che Inna ostenta con orgoglio, si trovano bersagli ovvi come Putin, Berlusconie Dsk ma anche la solidarietà con i giornalisti perseguitati in Georgia, l' iraniana condannata alla lapidazione Sakineh, i ragazzi di Occupy Wall Street, e persino la difesa degli animali maltrattati nello zoo di Kiev. L' unico vero tema ricorrente è il diritto all' autodeterminazione delle donne - il famoso "Io sono mia" - e la battaglia contro la prostituzione. "L'Ucraina non è un bordello"è stato lo slogan del gruppo durante le manifestazioni contro il turismo sessuale collegato agli europei di calcio. «Il destino delle donne nel nostro paese è segnato: ti puoi sposare, oppure prostituirti. In ogni caso sei schiava dell' uomo». In Francia, come altrove in Europa, la situazione è più sfumata, esistono associazioni di "sex workers" fiere del loro mestiere. «La prostituzione non è mai libera» ribatte Inna che sembra avere pochi dubbi, come quando dice: «Il vecchio femminismo, fatto di conferenze e cortei, non funziona più. Noi siamo il futuro». 
Il dubbio è che, alla lunga, anche l' effetto sorpresa svanisca. Molte organizzazioni di donne sostengono che le performance di Femen servano solo a confermare e rafforzare una visione maschile del mondo. «Accade l' esatto contrario - replica Inna - la nostra nudità disturba e spiazza gli uomini proprio perché non sono loro che decidono come e quando ci dobbiamo spogliare e cosa fare del nostro corpo». Un anno fa, Inna e altre tre ragazze di Femen sono venute in Italia. «Da voi - ricorda - ho partecipato a una trasmissione tv abbastanza maschilista. Ma non importa: per lanciare le nostre denunce siamo pronte ad andare ovunque. Potremmo persino accettare di fare la copertina di Playboy». Una coniglietta femminista? «Perché no?».

lunedì 10 settembre 2012

L'amore azzurro di Edith Piaf

PARIGI - Nella policromia amorosa di Edith Piaf, c'è stato l'amour bleu. Amore azzurro come un cielo spazzato via da cattivi presagi, come il ghiaccio che brucia le mani. Per meno di un anno, qualche mese appena, il ciclista Louis Gérardin, biondo campione dell'epoca, è stato per la cantante francese “mon ange”, “mon adoré”, “m'amour”, addirittura “messia”, “padrone”, “settima meraviglia”. Nelle decine di lettere che Piaf ha mandato al suo amante segreto tra il 1951 e il 1952, e tradotte dal francese nel libro “L'amore azzurro”, si scopre una passione tanto più breve quanto divorante, travolgente. “Non posso più aspettare”. “Vado verso la catastrofe”. “Sono niente senza di te”.
In quel momento, la cenerentola di Belleville ha già cantato “La vie en rose” e “Hymne à l'amour”, è ormai da tempo una diva strapagata e richiesta in tutte le capitali occidentali. A soli trentasei anni, già consumata da alcool e morfina, questo scricciolo di donna custodisce sé una forza incredibile, una voce magnetica che “ha sconvolto il mondo” come recita la targa sulla sua casa parigina. Ha alle spalle una carriera sentimentale movimentata, è un'ottima preda per i giornali scandalistici che hanno seguito ogni sua conquista. Yves Montand, Paul Meurisse, Eddie Constantine, tra gli altri. Non è un mistero che si sia generosamente concessa, dilapidando non solo fortuna e salute. Cresciuta nei postriboli delle cugine in Normandia e nella carovana circense del padre, la piccola Edith Giovanna (sua madre, cabila, era nata in Italia) Gassion è stata svezzata presto. Appena diciottenne, viene costretta a prostituirsi per pagare la sepoltura della figlia morta precocemente di meningite.
Quando incontra il ciclista un po' dandy al Velodrome d'Hiver, Piaf è reduce da un altro dei tanti lutti che hanno costellato la sua vita. Dopo il suo pigmalione Louis Leplée, ucciso durante una rapina, è il pugile Marcel Cerdan, suo grande amore, a morire in un incidente aereo nel 1949. Con Gérardin, chiamato anche “Toto”, la cantante vuole credere in un nuovo inizio. Nella sua prima lettera, il 15 novembre 1951, giura subito “amore eterno”. “Sarai l'unico”. “Tutto comincia e finisce con te”. “Sono così felice di appartenerti per sempre”. A un certo punto, come prova decisiva, confessa di aver tolto dal suo appartamento la foto di Cerdan. La nuova coppia è costretta a incontri clandestini. Gérardin è sposato da quasi dieci anni. “Capisco il tuo tormento, mio chéri, ma non saresti né il primo né l'unico a lasciare la moglie”.
Tra uno spettacolo e l'altro, lontana per qualche giorno dal suo amante, Piaf mette su carta, semplici fogli di un quaderno, un flusso ininterrotto di parole, pensieri, sogni. Frasi lunghe e sconnesse, senza virgole, con frequenti errori di ortografia, molti punti esclamativi, parole sottolineate. “Je t'aime” ritorna continuamente, è addirittura scritto con la “m” ripetuta sedici volte come ancora oggi usano fare le adolescenti negli sms. La Môme, in amore, è davvero una ragazzina.
Uno slancio totale, assoluto. Durante ogni separazione, che sia in tournée a Marsiglia o negli Stati Uniti, pretende a distanza conferme, promesse, certezze. Piaf vive in una fusione di amorosi sensi. “Sei nelle mia pelle”, scrive proprio come il titolo di una canzone che interpreterà qualche anno dopo. Anche le allusioni alle furtive notti passate in qualche albergo a ore, “Les Amants d'un jour”, sono esplicite. “Ti bacerei dappertutto, ma proprio dappertutto”. Non ha alcun pudore nel raccontare le sue fantasie erotiche su Gérardin, soprannominato “amour bleu” per gli occhi azzurri. Piaf parla delle sue “belle cosce” e del suo “bel sedere”. “Nessun uomo mi ha presa come te”.
Un desiderio che non prevede compromessi. “Tu me fais tourner la tête”, Gérardin fa veramente girare la testa alla stella della canzone francese. Le missive si fanno via via più pressanti. Non basta il telefono. “Toto” riceve anche tre lettere al giorno. Se non risponde, la cantante manda telegrammi a casa dei genitori di lui. La moglie del ciclista, Bichette, lo ha fatto pedinare da un detective, ha scoperto tutto e denunciato gli amanti per ricettazione di beni. Messo alle strette, il campione sceglie di andare a vivere con Piaf in un appartamento a Boulogne, vicino a Parigi. Dura poco. La corrispondenza, oggi di proprietà del Musée des Lettres et des Manuscrits, è purtroppo pubblicata a senso unico. Non conosciamo le risposte del ciclista alle decine di epistole. Ma si percepisce un'insofferenza crescente del destinatario per le intemperanze della Môme, che replica: “Ti prometto che smetterò di bere”. “Sarai tu a tenere tutti i conti”.
Nella primavera 1952 Gérardin raggiunge la cantante a Lille, dove è in concerto, per annunciarle che tornerà da Bichette. Piaf non crede alla rottura. Continua a immaginare di comprare insieme a “Toto” una casa “con belle lenzuola bianche”, di fare un figlio insieme al suo amante. Paragona il ciclista al compianto padre, Louis Gassion, “l'unica mia vera famiglia”. “Se Dio lo vorrà, sarai tu a darmi tutto ciò che ho perso” scrive Piaf che ha un'indistruttibile di fede da quando, ancora bambina, è stata guarita da una grave cheratite dopo un pellegrinaggio. Nelle missive d'amore la cantante cita le sue preghiere e confessa di aver acceso un cero in una chiesa per propiziare la storia con Gérardin.
Tre mesi dopo l'ultima dichiarazione d'amore, il 18 settembre 1952, Piaf manda ai genitori di Gérardin un'ultima missiva dagli Stati Uniti. Comincia così: “Quanto riceverai questa lettera, sarò sposata”. Negli Stati Uniti, ha rivisto il cantante Jacques Pills colui che le scriverà la famosa canzone “Je t'ai dans la peau”. Il discreto matrimonio si celebra nella chiesa francese di New York. Piaf ritrova così un compagno con cui condividere la sua arte, com'era già accaduto in passato. La sua testimone di nozze è Marlene Dietrich. E' l'attrice a regalarle un sobrio vestito da sposa. “Ti avevo avvertito mille volte che mi avresti persa, ma non hai mai reagito - scrive la cantante a Gérardin -. E' successo quel che doveva accadere. A forza di stare accanto a una persona tenera, gentile e piena di attenzione ci ho preso gusto e devo ammettere che ora amo sinceramente Jacques!”. Qualche anno dopo, “Toto” rincasato smette anche di gareggiare. Diventerà uno dei migliori allenatori del ciclismo francese. La Môme nel frattempo ha già divorziato da Pills. Nel suo caleidoscopio sentimentale, tocca al ventiquattrenne "Milord" Georges Moustaki. Per la cantante che si vantava di usare abiti di scena solo neri “come un'uniforme” è l'inizio di un'altra passione, un altro colore da indossare.

giovedì 6 settembre 2012

Il libro che rompe il tabù dell'incesto

PARIGI - L'uomo è in bagno, ha lasciato la porta socchiusa. Ordina alla ragazza di avvicinarsi. La fa inginocchiare. Il resto è una lunga sequenza, a tratti insostenibili, di sottomissione sessuale. Sono le prime pagine di “Une semaine de vacances”, il nuovo libro di Christine Angot, scrittrice francese abituata a fare scandalo. Il libro narra l'iniziazione di una giovane vergine nel chiuso di una casa di vacanza. Non sono i dettagli osceni che si susseguono a disturbare il lettore ma la relazione pedofila che si crea tra l'uomo e la ragazza. Un padre e sua figlia.
L'incesto, tabù universale su cui ogni società si costruisce, è raccontato nei dettagli più morbosi, con un stile disumano e scarno. Prima ancora di essere pubblicato, l'uscita è prevista per oggi, il libro di Angot ha scatenato un acceso dibattito tanto da conquistarsi ieri la prima pagina di Libération. Un romanzo-evento come succede spesso in Francia, paese nel quale gli scrittori di narrativa possono aprire polemiche trasversali, incrociando la cultura e la politica. Nell'intervista pubblicata dal quotidiano francese, l'autrice difende la sua scelta. “L'incesto non è un qualcosa di privato o intimo, è qualcosa di sociale, di politico” spiega Angot. I casi di molestie sessuali all'interno della famiglia diventano spesso un segreto inconfessabile sul quale si preferisce stendere un velo di omertà.
Anche per la scrittrice francese è stato così. Cresciuta con la madre e la nonna, Angot ha conosciuto solo a quattordici anni suo padre, un traduttore del parlamento europeo, descritto come un uomo poliglotta, colto, amante della buona tavola. Le violenze sessuali che la giovane Christine subisce allora vengono ignorate o passate sotto silenzio da gran parte dei suoi parenti e amici. Nel racconto letterario, la protagonista ha sedici anni ed è completamente asservita ai desideri del suo padre-padrone che mentre abusa del suo corpo le ordina di dire: “Ti amo, papà”. Le centoquaranta pagine del romanzo si soffermano su particolari raccapriccianti, un'indagine anatomica di ogni servizio sessuale richiesto, in un crescendo di perversione senza limiti. Uno shock letterario che, secondo Angot, dovrebbe provocare un presa di coscienza. “Ho capito - spiega - che la dimensione sessuale dell'incesto non è chiara a tutti, molte persone non realizzano cosa accade davvero”.
La scrittrice aveva già rivelato gli abusi di cui era stata vittima pubblicando nel 1999 “L'Incesto”, tradotto anche in Italia. Ma allora le violenze erano solo accennate. Questa volta la scrittrice riprende il racconto con minuzia scientifica, usando il tono impersonale del narratore. E' uno dei suoi pochi libri in terza persona. Una scelta, spiega, che permette anche di elaborare la violenza pedofila e di presentarla al lettore senza il filtro delle emozioni. L'utilizzo dell'Io ha contraddistinto tutta la sua opera così come i riferimenti autobiografici. Angot è considerata un'esponente di spicco dell'autofiction, genere molto frequentato dagli scrittori francesi spesso accusati di essere “nombrilistes”, concentrati solo sul proprio ombelico.
Con il suo gusto per la provocazione, l'autrice cinquatrenne è amata e odiata dalla stampa francese. E' un'ospite apprezzata dalle televisioni perché capace di sostenere polemiche e accendere risse in diretta. Spesso se la prende con i suoi editori, ha esordito con Gallimard per approdare oggi a Flammarion, dopo aver abbandonato Le Seuil che pure l'aveva ingaggiata con un lauto compenso. Amata e odiata, non lascia mai indifferente. Coccolata da testate come Liberation e il settimanale Inrockuptibles, è stata invece definita un “vampiro” dal Nouvel Observateur.
Nei suoi romanzi, quasi venti dal debutto nel 1990, fa continue allusioni ad amici e conoscenti. Non sempre finisce bene. L'ex moglie del cantante Doc Gyneco, con cui Angot ha avuto una turbolenta passione, l'ha denunciata per violazione della vita privata, riconoscendosi in ben due dei suoi libri. Separata, madre di Léonore alla quale ha dedicato molti dei suoi primi romanzi, ha collezionato amanti per poi servirsene come materiale letterario. Angot si paragona per la durezza della scrittura a Marguerite Duras. “Disturba perché è una donna, questo è il suo più grave difetto” chiosa Libération. La pervicace ricerca dell'oscenità è per lei il meccanismo con il quale svelare le zone d'ombra della società, la dominazione sessuale e famigliare sugli individui. Sull'incesto, che torna continuamente nei suoi libri, Angot ha preso spunto da Anaïs Nin ma anche dall'Edipo re di Sofocle. “Non sono certo la prima a parlarne, eppure ogni volta c'è qualcuno che riesce a distogliere lo sguardo, a coprirsi con una maschera”. Forse ora non sarà possibile, almeno per i temerari che avranno voglia di aprire il suo nuovo libro.

mercoledì 5 settembre 2012

Prostituzione, le ombre dietro al modello svedese

STOCCOLMA - Camminando nel deserto di cemento di Malmskillnadsgatan, nessuno potrebbe sospettare che fino a qualche anno fa proprio in questa strada ci fosse il più famoso quartiere a luci rosse della città. Niente più squillo né luci al neon. La via di Stoccolma è stata interamente ripulita, il marciapiede è battuto solo dai frettolosi passi degli impiegati dei vicini ministeri oppure dai turisti che si dirigono verso Hamngatan, il grande corso commerciale. Questo è il risultato più evidente del “Sexköplagen”, la legge contro la prostituzione che la Svezia ormai presenta nel mondo come modello.
L'ultimo paese che vorrebbe seguire questo esempio è la Francia. Il ministro per le Pari Opportunità, la giovane Najat Vallaud-Belkacem, ha annunciato di volersi ispirare al “Sexköplagen” per “abolire la prostituzione”. Anche il parlamento europeo ne ha più volte discusso e persino il presidente cubano Raul Castro sostiene di aver pensato di imitare l'approccio svedese. Un cambio di prospettiva che ha fatto epoca. Anziché punire la prostituta, come avviene in gran parte dei paesi, qui si sanziona il cliente. Nel linguaggio asettico della normativa, approvata nel 1999, si prevede infatti di punire i “consumatori” che hanno “acquistato servizi sessuali”. Il ragionamento dei promotori della legge non fa una piega: senza la domanda, non ci sarà più l'offerta.
E' la solita ipocrisia” ribatte Petra Östergren (nella foto), professoressa di antropologia all'unviersità di Lund e autrice di un rapporto che vuole denunciare le ombre del modello svedese. Oltre dieci anni dopo, il bilancio della legge è ancora controverso. Il ministero della Giustizia ha calcolato che la prostituzione nelle strade è diminuita di metà nell'ultimo decennio. In tutto il paese, cifre della polizia, ci sarebbero attualmente meno di trecento sex workers. Un numero contestato da Östergren che ha incrociato gli annunci online e ha intervistato molte lavoratrici del sesso. Secondo l'antropologa svedese la cifra reale è molto superiore. “La legge è solo un modo di nascondere il problema sotto al tappeto” spiega Östergren che, mentre il modello svedese conquista nuovi adepti, sta cercando di diffondere il suo contro-rapporto, tradotto anche in francese e inglese, con lo scopo di “smascherare un'illusione”.
La pulizia di Malmskillnadsgatan potrebbe insomma essere un abbaglio. Pye Jacobsson ha fondato Rose Alliance, un'associazione di sex workers. “Non è possibile fare un paragone con il passato perché lo Stato non ha mai avuto cifre affidabili sulla prostituzione nelle strade” racconta. “Da noi - aggiunge - l'attività all'aperto è stata sempre ridotta per un semplice motivo: fuori fa freddo”. Jacobsson sostiene che, da quando è entrata in vigore la legge, le prostitute sono costrette a lavorare in modo clandestino, in condizioni più precarie e insicure. E' l'effetto paradossale di un norma fortemente voluta da alcune femministe e che doveva in realtà aiutare le donne. “Con un approccio moralizzatore non funzionerà mai” ribatte ancora Jacobsson, fiera del suo lavoro. “Quando dico che non mi sento una vittima mi rispondono che sono soggiogata oppure che rappresento solo una piccola minoranza”.
Il mercato del sesso intanto ha cambiato sede. Si compra e si vende soprattutto su Internet o al telefono. E' la prostituzione 2.0, come scrive nel suo rapporto Östergren, che tra l'altro coinvolge ragazze sempre più giovani. Per i clienti più timorosi è sufficiente andare nel vicino porto danese Frederikshavn per frequentare delle case chiuse, oppure prenotare online alcuni “viaggi organizzati” dalla Svezia verso i paesi Baltici. “Non si può affrontare un problema complesso come la prostituzione con soluzione semplici” conclude Östergren che parla della differenza tra una signora svedese che decide a un certo punto della vita di fare l'escort e una minorenne nigeriana che è in mano alla criminalità organizzata.
E' questa complessità che fa capire rende difficile realizzare davvero l'obiettivo della legge votata nel 1999. Nell'ultimo decennio le multe sono state appena trecento e nessuno è mai finito in carcere. Un anno fa, il governo ha deciso di aumentare la pena da 6 mesi a 1 anno come ulteriore deterrente. Ma al di là delle critiche delle sex workers e di alcune intellettuali come Östergren, resta un largo consenso intorno al “Sexköplagen”. Dal 1999, nessun governo ha mai rimesso in discussione la legge, nonostante i cambi di maggioranza. Dieci anni fa, solo un terzo degli svedesi era favorevole alla normativa. Oggi, secondo i sondaggi, sono due terzi. Un cambio di mentalità e un successo rivendicato dalle autorità pubbliche, anche se ogni tanto suona qualche campanello di allarme. Nel 2010, il dirigente della polizia Göran Lindberg, tra i più convinti sostenitori della “Sexköplagen” è stato arrestato per molestie e stupro di una minorenne. E l'anno scorso, una radio svedese ha deciso per gioco di trasmettere un falso annuncio di servizi sessuali. Il centralino è stato intasato di chiamate.